giovedì 16 aprile 2020

10) Diario personale, dal convento, nei giorni del coronavirus


Lunedì 06 - Domenica 12 aprile 2020

La tanto attesa, e per certi versi temuta, Settimana Santa. Attesa, perché siamo venuti preparandola fin dagli inizi della epidemia, cercando strategie e significati per viverla il più cristianamente possibile. Si è insistito molto su un vissuto che privilegiasse l’aspetto più intimo e profondo della festa per eccellenza di noi cristiani; ma credo che, in fondo, tutti speravamo di poter celebrare una Settimana Santa “pubblica”; anche se a ranghi ridotti e con tutte le accortezze necessarie. Temuta, per il disorientamento emotivo di fronte a banchi vuoti, pur se con la mente piena di visi e storie, e il cuore traboccante di situazioni e preghiere.

Lutti – La mia settimana è stata accompagnata dalla morte di persone care: Mariagrazia P., all’inizio; la “abuela” Cruz, giovedì santo; zia Enza, sabato santo.
Foto del III Liceo.
Mariagrazia è la ragazza al centro in 2ª fila

Mariagrazia è stata mia compagna di liceo. So che stava male, che aveva problemi di respirazione, e dipendeva dalle bombole di ossigeno. Da tempo non usciva di casa. Le chiedo perdono per non aver avuto l’accortezza di andare a trovarla. Non immaginavo che stesse tanto male. Di lei ricordo il largo sorriso. Aveva i suoi momenti, ma ciò che mi viene in mente pensando a lei è appunto il suo sorriso. È forse stata una delle persone che maggiormente ha manifestato gioia nel rivedermi in classe, dopo la parentesi del V ginnasio a Conversano. Spesso si tornava insieme da scuola, con suo cugino Angelo, e altri che abitavano nella parte bassa del paese. Fino a “u mur u russ”, dove noi due deviavamo verso il municipio, lei per fermarsi al Carmine, io per proseguire a Santronzie. Delle carissime amiche avute al liceo, Mariagrazia è stata forse quella che ho frequentato di più, andando ogni tanto a casa sua per i compiti, e per ripetizioni di matematica con sua madre, durante i periodi di occupazione dell’istituto scolastico, o in attesa del professore di ruolo, che normalmente tardava ad arrivare. Mi fa male pensare che non ci sei più. Mi addolora non averti potuto salutare.

Cruz è stata la mia “abuela” (nonna) de La Culata, zona pastorale da me assistita durante i due bellissimi anni a Pueblo Llano. Viveva con la figlia Maribela, sagrestana, in una casa poco più in alto della cappella. Casa modesta, come quasi tutte, dove potevo trovare sempre per me un caffé “guayoyo”, il fuoco del camino durante le giornate fredde, il calore umano tutti i giorni dell’anno. In casa sua, più che in altre della zona, ho fatto colazione e merenda con caffè e arepa de harina, pranzato e cenato piatti tipici del posto, con posate e scodelle povere, stretto nella piccola stanza con il tavolo per gli ospiti, servito e accolto con amore semplice, senza smancerie. Mi sono sentito uno di loro. Mi hanno voluto bene come uno di loro.

Zia Enza è stata da sempre la zia di Roma, mamma dei cugini più vicini per età a me, a mio fratello e mia sorella. Il loro venire al paese per le vacanze estive era sempre una gioia. Mi chiedo oggi come facessero a fare un viaggio di circa 5 ore, stipati in sei in una macchina piena di bagagli. Ma erano tempi in cui si badava poco a questi dettagli. Non so se sono nel giusto, ma credo che a mia zia siano sempre piaciute l’eleganza, il ballo, le amicizie spensierate ma sincere. A sentire i racconti di mia madre, zia Enza da ragazza era una specie di simpatica Gianburrasca. Sposatasi troppo giovane, è dovuta andare a vivere lontana dagli affetti familiari, poco accolta o addirittura osteggiata dai parenti di mio zio. Non sempre capita nemmeno da lui, influenzato dai suoi familiari. Ho saputo dopo anni, dai miei cugini, quanto abbia sofferto durante quegli anni, e quanto loro abbiano sofferto con lei. È stata anche la prima zia a rimanere vedova, ancora giovane. Senza l’appoggio dei suoi parenti diretti, non per cattiveria ma per lontananza geografica, ha dovuto affrontare grosse difficoltà e fare sacrifici per poter andare avanti, aiutata anche dai miei cugini. Sono stati tempi duri, specie agli inizi. Tempi che hanno cementato l’unione e la stima tra loro, formando le persone belle che sono oggi.

 Triduo Santo – Abbiamo cercato di celebrarlo nel miglior modo possibile, in relazione al decreto sul coronavirus e al divieto di partecipazione dei fedeli. Suddivisi nella presidenza delle liturgie, ognuno ha preparato un pensiero di omelia. Vi assicuro che non è facile “predicare” senza fedeli, e con la sola presenza dei confratelli. A me è toccata la Veglia Pasquale. Ho cercato tutto il giorno di concentrarmi su cosa dire, ma non ci sono riuscito. Per cui alla fine ne è venuta fuori una quasi improvvisazione, nella quale ho parlato prima di tutto a me, per poi esprimere delle opinioni personali su quali insegnamenti, a livello comunitario, si possono trarre da questa Pasqua particolare... che speriamo resti anche unica.

Molto seguite sono state le celebrazioni di Papa Francesco per televisione. A causa degli orari delle nostre celebrazioni, ne ho potuto vedere solo un paio: la Via Crucis del Venerdì Santo, e la Veglia del Sabato. Della prima, quest’anno non al Colosseo come da tradizione, ma nella suggestiva Piazza San Pietro vuota, mi hanno colpito le profonde e belle riflessioni, scritte da carcerati e personale carcerario di Padova, su invito del Papa. Sono state una testimonianza viva del riscatto morale e spirituale, del risorgere che si prova quando permettiamo a Cristo di fare irruzione nelle nostre vite con la sua luce e la sua misericordia. Dell’omelia della Veglia Pasquale ricordo due cose: il forte richiamo di Papa Francesco al “diritto” del cristiano alla speranza, intesa non come vuota utopia, ma come presenza viva di Cristo Risorto, che ci dà coraggio nelle difficoltà e non ci lascia soli nelle lotte in favore della vita e del creato; l’appello alla difesa della vita, non costruendo più armi e non abortendo.

La Domenica di Pasqua la nostra prima cittadina, accompagnata da due rappresentanti della giunta comunale e da un rappresentante dei vigili urbani, ci ha chiesto di venire al santuario per invocare la protezione di San Giuseppe per la città di Copertino. Lo ha fatto durante la preghiera di mezzogiorno del “Regina Coeli”, trasmessa dai noi frati in streaming. Una iniziativa di fede, senza fini politici, gradita dai più, almeno a giudicare da quanti hanno interagito con il video e dai giudizi espressi.


Nel pomeriggio, un responsabile della Protezione civile mi ha invitato, via telefono, a prendere parte, come guardiano della comunità, a un omaggio floreale alla statua di San Giuseppe, che si trova nella piazzetta di ingresso dell’ospedale. È voluto essere anche un omaggio e riconoscimento verso tutte quelle persone che si stanno adoperando nella lotta al coronavirus e alle sue conseguenze: personale sanitario, forze dell’ordine, volontari di vario genere. Momento davvero commovente, apertosi co canto dell’inno nazionale, proseguito con le parole di un medico, della sindaco e mie, terminato con il suono delle sirene al momento della deposizione dei fiori presso la statua. Non è stato facile trattenere le lacrime. A me, che avevo espresso tutta la mia gratitudine alle persone presenti per il lavoro che svolgono in prima linea, chiedendo perdono per non essere con loro in trincea, una infermiera, riempiendomi di consolazione e ricordandomi le mie responsabilità, ha detto: “Padre, ognuno collabori con quello che Dio gli sta chiedendo di fare. La vostra preghiera per noi è fondamentale. Accompagnateci con quella, perché possiamo sentire la presenza di Dio accanto a noi”. Grazie!!


A conclusione, i miei auguri pasquali. Che questa Pasqua sia per tutti un passaggio dalla morte alla vita; dal peccato alla grazia; dalla tomba delle nostre solitudini, alla pietra rotolata per l’incontro con l’Altro e gli altri; dalla chiusura di case e cuori, all’apertura missionaria e solidale con tutti.

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