Lunedì 06 - Domenica 12
aprile 2020
La tanto attesa, e per certi versi temuta, Settimana Santa. Attesa, perché siamo venuti preparandola fin dagli
inizi della epidemia, cercando strategie e significati per viverla il più
cristianamente possibile. Si è insistito molto su un vissuto che privilegiasse
l’aspetto più intimo e profondo della festa per eccellenza di noi cristiani; ma
credo che, in fondo, tutti speravamo di poter celebrare una Settimana Santa
“pubblica”; anche se a ranghi ridotti e con tutte le accortezze necessarie.
Temuta, per il disorientamento emotivo di fronte a banchi vuoti, pur se con la
mente piena di visi e storie, e il cuore traboccante di situazioni e preghiere.
Lutti – La mia settimana è stata
accompagnata dalla morte di persone care: Mariagrazia P., all’inizio; la
“abuela” Cruz, giovedì santo; zia Enza, sabato santo.
Foto del III Liceo.
Mariagrazia è la ragazza al centro in 2ª fila
|
Mariagrazia è stata mia compagna di liceo. So
che stava male, che aveva problemi di respirazione, e dipendeva dalle bombole
di ossigeno. Da tempo non usciva di casa. Le chiedo perdono per non aver avuto
l’accortezza di andare a trovarla. Non immaginavo che stesse tanto male. Di lei
ricordo il largo sorriso. Aveva i suoi momenti, ma ciò che mi viene in mente
pensando a lei è appunto il suo sorriso. È forse stata una delle persone che maggiormente
ha manifestato gioia nel rivedermi in classe, dopo la parentesi del V ginnasio
a Conversano. Spesso si tornava insieme da scuola, con suo cugino Angelo, e altri
che abitavano nella parte bassa del paese. Fino a “u mur u russ”, dove noi due
deviavamo verso il municipio, lei per fermarsi al Carmine, io per proseguire a
Santronzie. Delle carissime amiche avute al liceo, Mariagrazia è stata forse
quella che ho frequentato di più, andando ogni tanto a casa sua per i compiti,
e per ripetizioni di matematica con sua madre, durante i periodi di occupazione
dell’istituto scolastico, o in attesa del professore di ruolo, che normalmente
tardava ad arrivare. Mi fa male pensare che non ci sei più. Mi addolora non
averti potuto salutare.
Cruz è stata la mia “abuela” (nonna) de La
Culata, zona pastorale da me assistita durante i due bellissimi anni a Pueblo
Llano. Viveva con la figlia Maribela, sagrestana, in una casa poco più in alto
della cappella. Casa modesta, come quasi tutte, dove potevo trovare sempre per
me un caffé “guayoyo”, il fuoco del camino durante le giornate fredde, il
calore umano tutti i giorni dell’anno. In casa sua, più che in altre della
zona, ho fatto colazione e merenda con caffè e arepa de harina, pranzato e
cenato piatti tipici del posto, con posate e scodelle povere, stretto nella
piccola stanza con il tavolo per gli ospiti, servito e accolto con amore
semplice, senza smancerie. Mi sono sentito uno di loro. Mi hanno voluto bene
come uno di loro.
Zia Enza è stata da sempre la zia di Roma,
mamma dei cugini più vicini per età a me, a mio fratello e mia sorella. Il loro
venire al paese per le vacanze estive era sempre una gioia. Mi chiedo oggi come
facessero a fare un viaggio di circa 5 ore, stipati in sei in una macchina
piena di bagagli. Ma erano tempi in cui si badava poco a questi dettagli. Non
so se sono nel giusto, ma credo che a mia zia siano sempre piaciute l’eleganza,
il ballo, le amicizie spensierate ma sincere. A sentire i racconti di mia
madre, zia Enza da ragazza era una specie di simpatica Gianburrasca. Sposatasi
troppo giovane, è dovuta andare a vivere lontana dagli affetti familiari, poco
accolta o addirittura osteggiata dai parenti di mio zio. Non sempre capita
nemmeno da lui, influenzato dai suoi familiari. Ho saputo dopo anni, dai miei
cugini, quanto abbia sofferto durante quegli anni, e quanto loro abbiano
sofferto con lei. È stata anche la prima zia a rimanere vedova, ancora giovane.
Senza l’appoggio dei suoi parenti diretti, non per cattiveria ma per lontananza
geografica, ha dovuto affrontare grosse difficoltà e fare sacrifici per poter
andare avanti, aiutata anche dai miei cugini. Sono stati tempi duri, specie
agli inizi. Tempi che hanno cementato l’unione e la stima tra loro, formando le
persone belle che sono oggi.
Molto seguite sono state le celebrazioni di Papa Francesco per
televisione. A causa degli orari delle nostre celebrazioni, ne ho potuto vedere
solo un paio: la Via Crucis del Venerdì Santo, e la Veglia del Sabato. Della
prima, quest’anno non al Colosseo come da tradizione, ma nella suggestiva
Piazza San Pietro vuota, mi hanno colpito le profonde e belle riflessioni,
scritte da carcerati e personale carcerario di Padova, su invito del Papa. Sono
state una testimonianza viva del riscatto morale e spirituale, del risorgere
che si prova quando permettiamo a Cristo di fare irruzione nelle nostre vite
con la sua luce e la sua misericordia. Dell’omelia della Veglia Pasquale
ricordo due cose: il forte richiamo di Papa Francesco al “diritto” del
cristiano alla speranza, intesa non come vuota utopia, ma come presenza viva di
Cristo Risorto, che ci dà coraggio nelle difficoltà e non ci lascia soli nelle
lotte in favore della vita e del creato; l’appello alla difesa della vita, non
costruendo più armi e non abortendo.
La Domenica di Pasqua la nostra prima cittadina, accompagnata da due
rappresentanti della giunta comunale e da un rappresentante dei vigili urbani, ci
ha chiesto di venire al santuario per invocare la protezione di San Giuseppe
per la città di Copertino. Lo ha fatto durante la preghiera di mezzogiorno del
“Regina Coeli”, trasmessa dai noi frati in streaming. Una iniziativa di fede,
senza fini politici, gradita dai più, almeno a giudicare da quanti hanno
interagito con il video e dai giudizi espressi.
Nel pomeriggio, un responsabile della Protezione civile mi ha invitato,
via telefono, a prendere parte, come guardiano della comunità, a un omaggio
floreale alla statua di San Giuseppe, che si trova nella piazzetta di ingresso
dell’ospedale. È voluto essere anche un omaggio e riconoscimento verso tutte
quelle persone che si stanno adoperando nella lotta al coronavirus e alle sue
conseguenze: personale sanitario, forze dell’ordine, volontari di vario genere.
Momento davvero commovente, apertosi co canto dell’inno nazionale, proseguito
con le parole di un medico, della sindaco e mie, terminato con il suono delle
sirene al momento della deposizione dei fiori presso la statua. Non è stato
facile trattenere le lacrime. A me, che avevo espresso tutta la mia gratitudine
alle persone presenti per il lavoro che svolgono in prima linea, chiedendo
perdono per non essere con loro in trincea, una infermiera, riempiendomi di
consolazione e ricordandomi le mie responsabilità, ha detto: “Padre, ognuno
collabori con quello che Dio gli sta chiedendo di fare. La vostra preghiera per
noi è fondamentale. Accompagnateci con quella, perché possiamo sentire la
presenza di Dio accanto a noi”. Grazie!!
A conclusione, i miei auguri pasquali. Che questa Pasqua sia per tutti
un passaggio dalla morte alla vita; dal peccato alla grazia; dalla tomba delle
nostre solitudini, alla pietra rotolata per l’incontro con l’Altro e gli altri;
dalla chiusura di case e cuori, all’apertura missionaria e solidale con tutti.
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