domenica 27 febbraio 2022

Io, fariseo e rabbino (Lc 6, 39-45)

 Il Vangelo da dentro

Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti (Lc 6, 17-19).

Ci sono anch’io in questa accozzaglia di gente proveniente da tutte le parti. Mi chiamo Sedekía, che significa “Dio è giustizia”, e sono stato mandato da quelli del mio movimento religioso, i farisei, per rendere giustizia a Dio e alla verità. Naturalmente provengo dalla ortodossa Giudea, e da Gerusalemme, la città di Jahwé, inviato per esaminare questo “maestro” senza cattedra, di cui tanto si parla. Le virgolette sono volute, perché, a differenza di me, che, per diventare rabbino, ho studiato alla scuola di un maestro riconosciuto, egli è, diciamo, un “improvvisatore”. All’improvviso è apparso sulla scena e da subito ha attratto tante persone, con la sua parola e con i fatti straordinari che gli si attribuiscono. Inoltre, esercita in Galilea, una regione poco più che pagana, a causa della presenza di molti stranieri, per il suo trovarsi lungo le due vie importanti di commercio tra l’Oriente e l’Egitto. Per di più, non si preoccupa di condividere il suo tempo con pubblici peccatori e altre categorie di persone classificate come impure, incurante di incorrere così in impurità legale. Pare che gli interessi solo il loro bene. Ed anche in questa pianura vedo che si lascia avvicinare da tutti, dispensando sorrisi e parole di misericordia e amore, lasciandosi toccare ed elargendo abbracci e pacche di incoraggiamento. Insomma, dal mio punto di vista di fariseo e rabbino della Giudea, un vero scandalo!!

Eppure non riesco a prendere la distanza che vorrei, per un giudizio obiettivo, e che dovrei, per non rischiare di contaminarmi anche io. Le sue parole e i suoi gesti sono per me scandalosamente affascinanti. Il suo insegnamento sull’amore e la misericordia non è del tutto nuovo rispetto a quanto Dio ci chiede nella Scrittura; ma lui porta tutto ad altezze meravigliosamente estreme, facendoci intravvedere e sognare orizzonti di una bellezza inaudita, pur se difficile da raggiungere. L’amore che annuncia tocca vertici da vertigini, che danno brividi di gioia e timore, di spinta ad osare e paura di non essere all’altezza. Lo sguardo spazia e si inebria di luce e panorami nuovi; ma la consapevolezza dei tuoi limiti e la realtà che ti circonda sono un freno spesso duro da togliere, in modo da poterti finalmente lanciare in un’avventura di vita senza molte sicurezze umane, contando però sull’aiuto e sull’esempio di Dio.

Le ultime parole di Gesù, pur se rivolte a tutto l’uditorio e in particolare ai suoi discepoli, mi sembrano indirizzate particolarmente a me e a coloro che mi hanno mandato ad indagare. Per dirla tutta e con franchezza, sono arrivato qui carico di pregiudizi e preconcetti sulla Galilea e su Gesù, quegli stessi che hanno i miei fratelli di religione, il movimento dei farisei. E allora, ecco la chiosa finale di Gesù sul cieco che pretende di guidare un altro cieco; sulla pretesa assurda di voler correggere l’altro, avendo una trave nell’occhio che non ti permette di vedere bene; sul giudicare gli alberi non dalle apparenze ma dai frutti, e così anche gli uomini; sul far “funzionare” il cuore nelle relazioni umane e nelle parole che si dicono. Si direbbe una critica a tutti quegli atteggiamenti e comportamenti che spesso assumiamo noi farisei, che ci riteniamo i giusti per eccellenza, perché viviamo alla lettera le norme della Legge e non ci immischiamo con gente che consideriamo mediocre e peccatrice. E tuttavia, troppe volte incapaci di autocritica e di misericordia, con il cuore arido, i giudizi taglienti e lo sguardo fulminante. Non certo testimoni credibili di quel Dio che diciamo di servire e che dovremmo annunciare al mondo; anzi, dimentichi di quanto amore Egli abbia profuso per il suo popolo, di quanta misericordia abbia esercitato verso i suoi peccati, di quanta pazienza e bontà abbia avuto nei confronti delle continue ribellioni e infedeltà.

Io, Sedekía, sono giunto fino a questa pianura di Galilea per rendere giustizia a Dio e alla verità, volendo giudicare Gesù secondo i miei schemi mentali e le mie convinzioni preconcette. Mi ritrovo invece in piena crisi salutare. Devo riconoscere che Gesù annuncia quel Dio da noi frequentemente tradito, e lo incarna negli atteggiamenti e nelle azioni, coniugando perfettamente e biblicamente misericordia e verità, giustizia e pace, come recita il salmo 84. Partito dal cuore dell’ortodossia e della pratica religiosa verso questa periferia geografica ed esistenziale, con atteggiamento snob, una visione chiara e risposte già confezionate, me ne torno a Gerusalemme sconvolto, con un bagaglio di dubbi e domande. Pieno però anche di una gioia “strana”, frutto dell’esperienza di questi giorni; dell’incontro con tutte queste persone “differenti” da me, con le quali ho condiviso, forzatamente e fortunatamente, spazi e tempi; ma soprattutto frutto dei momenti di comunione e di ascolto di Gesù Maestro (ormai senza più virgolette pregiudiziali, e con la “M” maiuscola).

fra Matteo


domenica 20 febbraio 2022

Io, straniero (Lc 6, 27-38)

Il Vangelo da dentro

Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti (Lc 6, 17-19).

Così Luca descrive nel suo Vangelo la provenienza della moltitudine di gente presente in quella pianura. Non lo si può certo accusare di discriminazione se non parla di me. Nessuno si accorse della mia presenza tra tutte quelle persone, molte delle quali provenienti dal litorale libanese, perciò stranieri, e io più di loro. Mi presentai in incognito, io, ufficiale romano di stanza a Cesarea sul mare, situata più a sud di Tiro e Sidone e sede del governatore inviato da Roma.

Sono sempre stato uno spirito inquieto, in ricerca. Da giovane ho provato ad essere felice vivendo a pieno i piaceri della vita e l’euforia delle vittorie militari. Ma, passato il momento, mi ritrovavo vuoto di cuore e di mente. Più tardi ho inseguito la felicità nella vita regolata dal diritto, di cui a Roma siamo maestri, e nella filosofia dei greci. La mia mente ne ha tratto ricchezza, ma il cuore si è mantenuto nella sua aridità. Una felicità a metà. Durante una mia lunga permanenza a Roma sono venuto a contatto con la cultura e la religione degli ebrei, che vivono nel loro bel quartiere sulle sponde del Tevere, e con alcuni di loro ho stretto una sincera amicizia. Mi ha affascinato il loro libro sacro, la Bibbia. Ho letto e riletto le sue pagine. Mi piace questo loro Dio, addirittura unico, senza un olimpo di dei al suo fianco, che sceglie un popolo tra i più piccoli del tempo per farne il suo popolo, in favore del quale interviene sempre con misericordia, malgrado le loro ribellioni, la loro testardaggine e il cuore indurito.

Sentivo però che mi mancava ancora qualcosa. E così, quando si è presentata l’occasione di poter venire a prestare servizio in Palestina, l’ho presa al volo, senza pensarci su due volte. Avevo desiderio e necessità di conoscere più da vicino questa gente e la loro religione. Non me ne sono pentito; non ho trovato ancora però quel senso pieno di vita che vado cercando da sempre. Mi manca comunque qualcosa; il che mi rimette continuamente in cammino, pellegrino sui sentieri che conducono alla pace e alla felicità.

Come mai sono arrivato fin là, a quella pianura della Galilea? Mi ci ha portato la curiosità di voler conoscere Gesù di Nazareth, maestro del quale si parlava diffusamente da qualche tempo a questa parte, la cui fama aveva valicato i confini della regione e della nazione. Chissà che non avesse qualcosa da dire alla mia ricerca. Ho cercato il suo villaggio di provenienza sulle carte geografiche, ma non l’ho trovato. Mi hanno riferito che è talmente piccolo e insignificante che hanno ritenuto di non riportarlo sulle mappe della Galilea. Eppure questo maestro, celebrato da tutti, vi aveva passato trenta anni della sua vita, nascosto come il suo villaggio, fuori da coordinate di riferimento, prima di iniziare a predicare pubblicamente la vicinanza del Regno di Dio e la conversione. Insomma, ero venuto per ascoltarlo, come molti. Tanti altri si capiva che erano lì per mettergli davanti i propri guai fisici o spirituali, confidando nelle sue capacità di guarigione e salvezza.

Gesù, sceso dal monte, prese allora la parola, annunciando di voler parlare dell’essere felici. Parve avermi letto nel pensiero. Mi aspettavo un bel trattato sulla felicità, alla maniera dei miei amati filosofi; invece ha sconvolto l’uditorio dichiarando beate alcune categorie di persone che noi avremmo definito minimo “sfortunate”: i poveri, chi ha fame, chi piange e chi è perseguitato a causa del suo nome. Perché? Non per una condizione di vita che è dovere di tutti aiutare a superare; ma per la loro necessità di doversi aprire alla relazione, con Dio e con i fratelli, trovandosi nella condizione di non bastare a sé stessi, e quindi di non correre il pericolo della autoreferenzialità escludente e discriminante, che, al contrario, porta pericoli e guai per tutti. Sono infatti le relazioni che odorano di vera spiritualità e umanità a renderci felici.

È poi passato a parlare di amore, raggiungendo vette a prima vista impossibili da scalare. Amare addirittura i nemici… Rispondere al male con il bene… Essere misericordiosi alla misura di Dio, non tanto “come”, ma “con” Lui e “perché” Lui lo è con noi (un dio così non esiste nell’olimpo dei nostri dei…). Concetti straordinariamente affascinanti, ma pericolosi per la politica e gli equilibri internazionali dell’Impero Romano, che vedrebbe certamente la fine se si affermassero. E infatti si è cercato di inchiodarli con lui su una croce, non riuscendo però a farli morire con lui. Personalmente il nemico ho imparato a rispettarlo, ma amarlo è troppo!! Eppure, sento che sarebbe giusto e bello se fossimo capaci di tanto, e che il mondo sarebbe senz’altro più vivibile se aperto al bene gratuito e disinteressato.

Sono tornato a Cesarea, affascinato e sconvolto da quella esperienza e da quelle parole. Fascino e turbamento che mi sono portato dietro come bagaglio prezioso, pur nella consapevolezza della difficoltà a vivere secondo quei criteri. Più di ogni altra cosa, mi ha sempre accompagnato l’incontro con Gesù. A un certo punto ho incrociato il suo sguardo, e mi è parso che lui stesse cercando il mio, in mezzo alla gran folla che lo circondava. Occhi che brillavano di quell’amore e quella misericordia che stava proponendo a tutti. Non ho più incontrato un maestro altrettanto credibile, nel quale si identificassero messaggio e testimonianza di vita, parole e amore incarnato. Tuttavia, il ricordo di quella esperienza e di quello sguardo non hanno mai smesso di accompagnarmi e di darmi il coraggio di andare avanti nella mia personale ricerca di una vita migliore e di un tempo più pieno.

  

fra Matteo


domenica 13 febbraio 2022

Io, discepolo (Lc 6, 13-26)

 Il Vangelo da dentro

Erano stati giorni intensi. Predicazione nei vari paesi della Galilea; guarigioni del corpo e dello spirito; controversie con le autorità religiose sul digiuno e l’osservanza del sabato. La sua fama andava aumentando a dismisura e la gente accorreva numerosissima, per ascoltarlo o per assistere a qualche miracolo. A volte non si riusciva neanche a mangiare. Ma Gesù trovava sempre il tempo per isolarsi in luoghi appartati, ad ore della notte, ed entrare in dialogo con suo Padre attraverso la preghiera. Dalla quale ritornava tra noi luminoso e incoraggiante. Comunque, sempre la preghiera precedeva decisioni importanti da prendere.

Quella volta parve averci letto nel pensiero, quando decise che si andasse tutti insieme su una altura, noi e lui soli, lontani dal frastuono e dalle attività. Sentivamo il bisogno di staccare un po’ la spina, di riposare. Una santa allegria ci aveva invasi mentre salivamo con lui. Ci sembrava di ascendere verso l’altura di Sion, verso il Tempio in Gerusalemme, tanto era forte percepire la presenza del divino quando eravamo con lui. L’ascesa è stata accompagnata dalla recita e dal canto dei salmi di ascensione, che riempiono le labbra e il cuore dei pellegrini mentre sono in prossimità di Gerusalemme. La sera, come suo solito, si appartò in preghiera, e vi rimase tutta la notte.

Al mattino ci convocò a sé. Aveva evidentemente qualcosa di importante da comunicarci, frutto del suo dialogo notturno con il Padre. Ci emozionò, dicendoci che eravamo per lui la sua nuova famiglia, che non avrebbe potuto sperare fratelli migliori e più numerosi di quelli che il Padre gli aveva dato; ma che era giunto il momento di nominare alcuni che gli stessero più da vicino e portassero avanti il suo annuncio di salvezza, qualora a lui non fosse più stato possibile. Aveva pensato a dodici di noi, che rappresentassero le dodici tribù del nuovo Israele, per noi e per tanti altri, popolo della nuova alleanza. Essi avrebbero avuto il compito di avviare il cammino, di formare e animare le comunità, di vegliare su possibili deviazioni dottrinali o morali. Almeno fino alla loro morte. Poi si sarebbe proseguito, forti del loro annuncio e testimonianza, saldi e fedeli, solidali e gioiosi, fino al giorno del ritorno di lui nella gloria.

Confesso di aver sentito un certo vuoto e amarezza al constatare che il mio nome non era nella lista dei dodici apostoli. Ci avevo sperato. Umanamente è normale; penso che possiate capirmi. Ero rimasto “discepolo”. In seguito, l’esperienza con Gesù, il suo insegnamento e il suo esempio di vita mi hanno fatto capire che nelle nostre comunità ogni “chiamata” è finalizzata a un “invio”, e ciò che agli occhi degli uomini può sembrare “ascesa” o “potere”, ha come fine l’attenzione amorosa verso gli ultimi e il servizio verso tutti.

Discesi dal monte, abbiamo trovato una grande moltitudine ad attenderci, da tutte le parti di Israele e delle terre confinanti. Il Maestro ha preso la parola e ci ha illustrato la via, le condizioni per essere felici. Le sue parole, le sue “beatitudini” ci hanno scioccato. Il contrario di quello che noi e tutti ci saremmo aspettato. Tuttavia, vi era un “voi” che ci identificava come “beati”. Noi, poveri, che avevamo lasciato tutto per seguire lui, fidandoci di lui. Noi, affamati, che ci saziavamo delle sue parole e della comunione con lui, dimenticando anche di mangiare quel poco che avevamo. Noi, afflitti, incapaci di rimanere indifferenti davanti al dolore altrui, mossi invece a sentire viscere di compassione verso i bisognosi, proprio come lui ci aveva insegnato e mostrato. Alla fine della sua vicenda terrena, avremmo compreso anche la beatitudine della derisione e persecuzione a causa del suo nome, che però al momento ci rimase oscura.

Insomma, ci fece capire che la vera beatitudine consisteva nel vivere in comunione con lui e come lui, nell’amore di Dio e del prossimo. Ed era vero. Lo sperimentavamo giorno per giorno. Ancora una volta aveva ragione lui. 

fra Matteo

 

sabato 12 febbraio 2022

63 anni… passaggio a situazione endemica?

È la speranza di questi giorni: passare da una situazione pandemica a una endemica. Imparare insomma a convivere con il virus e lui con l’uomo, per la sopravvivenza di entrambi. “Se non puoi vincere il nemico, fattelo amico”, recita un vecchio e saggio detto.

Bella sfida la convivenza, la convivialità delle differenze. Oggi più che mai necessaria e vitale. Soffiano all’est venti di guerra; i conflitti armati continuano a macchia di leopardo, in quella che il Papa definisce una terza guerra mondiale “diffusa”; le migrazioni-fuga da situazioni di fame, di guerra e repressione politica si susseguono senza soluzione di continuità; i regimi autoritari e violenti sembrano addirittura in aumento; i diritti umani, delle minoranze e delle donne, sono spesso calpestati; lo sfruttamento indiscriminato delle risorse della terra non si placa e l’ecosistema è in grave pericolo; in Italia, dopo la rielezione di Mattarella a presidente della Repubblica (scelta oculatamente obbligata), i partiti sono entrati in guerra tra loro e al loro interno. A livello personale, da pochi giorni ci ha lasciati Angelo, amico caro fin dal liceo.

Per farla breve, uno scenario che pare non lasciare posto e scampo alla speranza. Eppure, il compleanno è celebrazione della vita. Ancorché ostinatamente. E ancora una volta mi sento di celebrarla, insieme a tutto ciò che mi ha regalato, alle storie che mi hanno accompagnato e alle relazioni che mi hanno arricchito. Perché se è pur vero che il telone di fondo è quello descritto sopra, il palcoscenico può e deve essere occupato da attori che tessano una trama di bene – e grazie a Dio ce ne sono ancora tanti, ma tanti –, che dimostrino coraggio e capacità di cambiare lo scenario, forzando le ovvie conclusioni, per continuare a raccontare storie belle di vita e di promozione umana. E aiutare Dio a sorridere.

36, anni speculari di 63 – Il gioco continua, insieme all’obbligo del ricordo e alla gratitudine.

36 anni: 1995. Ottavo anno della mia presenza a Copertino. La mia prima obbedienza dopo i sei anni di studi a Roma. Non è stato facile, il primo mese, adattarmi a questa nuova esperienza. Il salto dalla capitale al paese mi è costato, come anche il rinunciare a un progetto che mi era stato prospettato in Assisi. Devo ringraziare i frati allora di comunità, Nicola in particolare, mio coetaneo, e la gente di Copertino. Non tanto per l’aiuto ad adattarmi, quanto per avermi fatto sentire amato, accolto. Ho capito di essere a casa, in famiglia. A volte mi fermo a pensare a come sarebbe potuta essere la mia storia se fossi andato ad Assisi. Si tratta più di un gioco mentale, di curiosità immaginativa, perché, di fatto, almeno sinora, sono molto contento della mia vita, che leggo sotto l’ottica della Provvidenza, pur con i miei limiti ed errori.

Una scenetta simpatica, che mi ha fatto sorridere e che non dimentico, ha caratterizzato il mio 11 febbraio del 1995, anno in cui noi francescani abbiamo celebrato gli 800 anni della nascita di S. Antonio di Padova. Entrato in cucina per la colazione, vi ho trovato padre Egidio, che stava sbucciando un frutto. Le due cuoche, Gina ed Anna, mi hanno subito fatto gli auguri. Al che padre Egidio mi ha chiesto il perché di quegli auguri. Gli ho risposto, con la baldanza dei miei anni giovani, che era il mio compleanno. E lui: Quanti anni compi? Io: 36. Di rimando padre Egidio, e con la sua innocente semplicità e spontaneità: Ah, gli anni che aveva S. Antonio quando è morto.

Chiaramente non c’era nessuna cattiveria o cinismo in quella frase; padre Egidio, lo sappiamo tutti, ne era incapace. E infatti io ho sorriso per quella coincidenza a cui non avevo pensato. Però è pur vero che si deve essere santi sempre, anche in giovane età. Io, a tutt’oggi, sono consapevole che di cammino verso la santità ne ho ancora parecchio da fare, e forse conviene che mi sbrighi e mi decida!!  

Festival di Sanremo – A differenza dell’anno scorso, quando per la pandemia era slittato a marzo, si è tenuto nei giorni previsti, quelli dell’inizio di febbraio, precedendo di pochi giorni il mio compleanno. Quindi, stavolta potrò riprendere il gioco delle canzoni che più mi hanno colpito, e che lascio come ricordo e “colonna sonora” dei miei 63 anni. Devo confessare che, non seguendo la kermesse sonora, in genere conosco o riascolto le canzoni classificatesi ai primi tre posti, facendo forse torto ad altre più meritevoli. Quest’anno ho guardato, registrati, lo show di Fiorello e di Checco Zalone, e, in diretta, parte della puntata dedicata alle covers.

La mia favorita è stata “Apri tutte le porte”, di Jovanotti, cantata da Gianni Morandi. Un vero inno alla vita, con un testo non banale e una musica coinvolgente. A Morandi, inoltre, calzava a pennello, sia come voce che come “testimonial” del messaggio contenuto nel testo. Il sole, a cui la canzone invita ad aprire le porte, ha caratterizzato la mattina del mio compleanno, insieme al mare. Sono stato a passeggiare, vista la gran bella giornata, nel tratto tra Torre Squillace e la penisola dell’Astrea, riserva naturale di Porto Cesareo. E se non fossi così freddoloso, poteva scapparci anche un bagno fuori stagione.

Il festival lo ha vinto la canzone “Brividi”. Ma a me i brividi li ha fatti venire, come sempre quando la ascolto, la cover di “A muso duro”, di Pierangelo Bertoli, portata sul palco da Sangiovanni e Fiorella Mannoia. A qualcuno potrebbe non essere piaciuta l’esecuzione (a me non è dispiaciuta), ma si tratta di un capolavoro di musica e poesia, da ascoltare e riascoltare. “Canterò le mie canzoni per la strada / ed affronterò la vita a muso duro / un guerriero senza patria e senza spada / con un piede nel passato / e lo sguardo dritto e aperto nel futuro… e alla fine della strada / potrò dire che i miei giorni li ho vissuti”.




domenica 6 febbraio 2022

Zebedeo (Lc 5, 1-11)

 Il Vangelo da dentro

Il trasferimento di Gesù da Nazareth a Cafarnao è passato quasi inosservato. Ci era giunta notizia di un maestro atipico, che, pur non avendo frequentato nessuna scuola rabbinica, era capace di dirimere questioni in modo nuovo e di scaldare i cuori con l’annuncio della vicinanza del Regno e l’invito alla conversione. Ma quando, per la prima volta, ha preso la parola nella nostra assemblea, invitato dal capo della sinagoga, allora ci siamo subito resi conto che la fama non rendeva giustizia alla sua persona. Lui era molto, ma molto di più. Non ci saremmo stancati mai di ascoltare quella sua voce forte e suadente, di farci trascinare dalle sue visioni nuove su Dio, di entusiasmarci di fronte alla sua proposta di amore e fratellanza universali. I miei due figli, Giacomo e Giovanni, ne rimasero folgorati, insieme a tanti altri. Da allora non hanno perso occasione per stargli vicino e abbeverarsi ai suoi insegnamenti.

Presto la sua fama si diffuse in tutta la regione. Venivano ormai folle ad ascoltarlo. Quella volta fu costretto a chiedere in prestito la barca di Simone e addentrarsi alcuni metri nel lago, così da avere un pulpito da dove poter parlare alla gente assiepata sulla riva. Il dopo lo conoscete dal vangelo. Simone si è fidato della parola di questo non pescatore, della sua indicazione professionalmente stramba, e la pesca è stata abbondantissima. I miei figli, soprannominati “figli del tuono” per la loro impetuosità, naturalmente non ci pensarono due volte ad accogliere il suo ulteriore invito a seguirlo, a diventare suoi discepoli in quella scuola di vita, itinerante e aperta a tutti. Insieme a Simone, loro socio, lasciarono tutto per correre dietro a una promessa strana, quasi incomprensibile al momento, ma con una grande forza di attrazione: diventare pescatori di uomini (in seguito avrebbero capito che si trattava di generare uomini alla vita in Dio, attraverso quella Parola che loro avevano accolto, di cui si erano fidati, e che aveva rigenerato anche le loro vite).

Come ci rimasi io?!? Difficile da dire. Avevo lavorato tanto per tirare su la nostra impresa familiare di pesca, della quale i miei figli avevano preso in mano le redini, con competenza e passione. Gli affari andavano ottimamente. Erano addirittura aumentati, dopo esserci messi in società con la famiglia di Simon Pietro. Insomma, stavamo bene, non ci mancava niente. E le giornate erano diventate ancor più radiose, per noi e tutta Cafarnao, dall’arrivo di Gesù. L’aver lasciato tutto, famiglia e mestiere, per andare dietro a una promessa, mi sembrava un azzardo. Ero preoccupato per come sarebbero andati gli affari della pesca (comunque, devo confessare che andarono molto meglio di quanto avessi previsto in quel momento). Non riuscivo però ad essere arrabbiato, ad avercela con loro, né tantomeno con Gesù. Semmai ero perplesso. Pensavo e ripensavo a come l’arrivo di quel nazareno avesse cambiato le nostre vite, in meglio. A dirla tutta, se avessi avuto meno anni e più coraggio, probabilmente avrei fatto la stessa scelta dei miei figli.

Dopo la morte di Gesù a Gerusalemme, Giacomo e Giovanni, insieme a Pietro e a qualche altro, sono tornati a casa. Ci raccontavano di averlo visto vivo; parlavano di resurrezione dai morti. Hanno ripreso il lavoro di un tempo; ma era evidente che non avevano lo stesso entusiasmo e interesse di prima. Le loro menti e il loro cuore erano altrove. Non si può dire nemmeno che fossero tristi. Erano come assenti, bruma in attesa di diradarsi, di dare spazio al sole, che sarebbe certamente spuntato. Indecisi, quasi in stallo, tra la nostalgia per il tempo passato con Gesù, e un futuro dai contorni indefiniti, da determinare con una scelta coraggiosa di vita.

Finché una mattina presto, al ritorno da una notte di pesca infruttuosa, come quella prima volta, Gesù si è presentato, risorto, sulla riva e ha ripetuto il miracolo dell’inizio. Avevano bisogno di quel segno, di quel dialogo intriso di promesse di amore e di invio missionario. È stato un rivivere la gioia e la chiamata di quel primo momento. Sono ripartiti, ancora una volta, lasciando di nuovo tutto, e non sono più tornati. Luminosi finalmente in viso, dopo le lacrime e i traumi gerosolimitani, con la pace nel cuore e il fuoco ai piedi. Non ho potuto fare a meno di benedirli e di… invidiarli.

 fra Matteo

 

venerdì 4 febbraio 2022

A Nazareth (Lc 4, 21-30)

Il Vangelo da dentro

Il suo arrivo a casa mi ha colto di sorpresa. Sapevo che sarebbe tornato a farmi visita. Me lo aveva promesso, quando ha lasciato la bottega di suo padre e il lavoro di falegname per seguire una voce interiore, una intuizione del cuore, che lo ha portato a intraprendere il cammino di predicatore itinerante. L'eco del suo successo è giunta a Nazareth. Si dice che parla con una autorità e un fascino differenti da tutti gli altri maestri, che le sue parole profumano di coerenza e novità, che compie guarigioni di corpi e anime. Si è costituito intorno a lui e al suo annuncio un gruppo di discepoli che pendono dalle sue labbra. In ogni città o villaggio dove entra riceve una accoglienza entusiasta, suscitando però anche qualche contrasto con le autorità religiose, che si sentono minacciate nel loro ruolo e potere, da lui che non ha i titoli per essere maestro e avere dei discepoli al suo seguito.

Il suo arrivo mi ha riempito di gioia, certo. Non ci vedevamo da qualche tempo, dai fatti di Cana, da quelle nozze nelle quali lo avevo quasi obbligato ad anticipare quella che Lui chiama la "sua ora". Eppure si è fatto spazio in me anche una certa preoccupazione, come un retrogusto amaro che non riesco a spiegarmi del tutto. Perché si è presentato da solo, senza i suoi discepoli? Che pure lo avevano seguito a Cana e lo accompagnano ovunque. Una assenza che ho colto come un presagio di qualcosa di negativo che potesse o stava per accadere, e dal quale aveva voluto risparmiare i suoi discepoli, la sua nuova famiglia. Non ho avuto il coraggio di esporgli questo mio sentimento, né di fargli domande al riguardo. Volevo godermi mio figlio. Ho conservato tutto nel mio cuore, come spesso mi accade quando si tratta di lui.

Il sabato ci siamo recati alla sinagoga. La sua presenza nel villaggio aveva fatto sorgere grandi e numerose aspettative. Come di frequente avveniva finché è vissuto qua, e riconoscendo la sua particolare preparazione biblica, gli fu dato il rotolo della Scrittura per quel giorno, una profezia di Isaia riguardo i tempi e le azioni salvifiche del Messia promesso. Lo lesse con la sua bella voce e sedette. Gli oc
chi di tutti lo scrutavano ansiosi, desiderosi di ascoltare un suo commento. Il suo silenzio riempì di pathos l'ambiente. Con il capo chino e gli occhi chiusi, sembrava stesse cercando le parole adatte per quello che voleva dire.

Poi le sue parole risuonarono nette e distinte. Una deflagrazione che sconcertò i presenti: il figlio del falegname arrogava a sé la realizzazione di quella profezia. La sua parola, la sua presenza, la sua opera era tutto ciò che l'uomo potesse sperare per essere felice. Annuncio bellissimo!! Notizia stupenda!! Ma non quello che tutti si aspettavano di udire. Anzi, non erano venuti per ascoltare, ma per vedere, e cose eccezionali. D'altronde non erano loro i suoi concittadini e familiari? Non avevano più diritto degli altri di essere spettatori e destinatari di azioni spettacolari e guarigioni miracolose?

A me è parso di capire quale grande considerazione avesse Gesù di loro, con quali aspettative era tornato a Nazareth. Però loro no. Gli esempi di azioni miracolistiche compiute da Dio in favore di stranieri, avrebbero dovuto far capire che mio figlio riteneva che loro non ne avessero bisogno. Certe cose sono per convincere e convertire i lontani, per coloro che non hanno la nostra fede, per chi non ha conosciuto il Dio dei padri, il Dio Padre e il suo amore verso il suo popolo. Noi abbiamo la sua Parola, le sue Promesse, la sua Presenza. Ci dovrebbe bastare. Sarebbe dovuto bastare ai nazaretani per riconoscere ed accogliere in Gesù la Parola fatta carne, l'Amore resosi visibile.

A un certo punto la perplessità ha generato indignazione, e la disillusione è degenerata in rabbia. Hanno portato il mio Gesù fin sul ciglio del burrone, con intenzioni omicide. Ma egli ha girato lo sguardo verso di loro. I suoi occhi denotavano incredulità e delusione per la loro durezza di cuore, misericordia e compassione per la loro chiusa ignoranza di fronte alla salvezza annunciata. E con una autorevolezza inaspettata e incontrastabile si è aperto cammino in mezzo a loro, inesorabilmente, come una fiaccola nelle tenebre, come la Parola di Dio in noi, spada a doppio taglio che arriva fino alla nostra più intima e buia interiorità. Si è trattato forse della vera azione eccezionale compiuta da lui quel giorno.

Dopo di allora, Gesù è tornato a Cafarnao e lì ha stabilito la sua patria. Io l'ho seguito. A Nazareth ero ormai una presenza scomoda, e per di più sentivo che dovevo rimanergli vicino, come madre e discepola. Avevamo bisogno entrambi di questa rinnovata comunione. Al contempo, mi sono ritrovata madre di una nuova famiglia, quella dei suoi seguaci, in un vincolo che non sarebbe più venuto meno.

Alla fine della sua storia terrena, avrei ancora una volta assistito a una vicenda simile: il mio Gesù trasportato verso una altura, tra spintoni e insulti, da una folla che pochi giorni prima lo aveva acclamato, per essere ucciso appeso a una croce. Anche là avrei incrociato di nuovo i suoi occhi increduli di fronte a tanta chiusura e malvagità, e risplendenti di misericordia verso tale ignoranza circa la sua persona. Le sue ultime parole furono di perdono. La sua ultima azione, più che eccezionale, l'essersi aperto cammino attraverso il buio della morte, inesorabilmente, con la luce della sua risurrezione. E aver spalancato definitivamente le porte alla vita in Dio, eterna, per tutti noi.