martedì 12 luglio 2022

Prendere a cuore (Lc 10, 25-37)

 Il Vangelo da dentro

Stavo seguendo Gesù non da molto tempo. Mi incuriosiva il movimento che si era creato attorno alla sua persona, pur essendo spesso perplesso di fronte ai suoi atteggiamenti e insegnamenti, nuovi, originali, quasi “eretici”. Qualche giorno fa sono stato spettatore di un fatto insolito: la sua decisione di recarsi a Gerusalemme per la Pasqua. Niente di strano, direte voi, visto che un pio ebreo sente la gioia di salire in pellegrinaggio alla città santa in occasione almeno di una delle tre grandi feste: Pasqua, Pentecoste, Tabernacoli. Eppure, nel prendere quella decisione il suo viso, di norma rilassato e sereno, si è come indurito, in una sorta di forte determinazione, necessaria in quel frangente, specchio di una personale lotta interiore.

Sapeva, e sapevamo, che non sarebbe stato bene accolto dalle autorità della città e del tempio. Ma sembrava spinto da una strana energia, da un fuoco dell’anima, che non ammetteva ripensamenti e rifuggiva rilassamenti o ritardi. Aveva “fretta”. Fretta di portare a termine qualcosa che era nella sua mente e nel suo cuore. Fretta che si è evidenziata fin dai primi momenti, quando a due che volevano seguirlo da discepoli, ma che sentivano di dover prima assolvere a dei doveri verso i loro genitori e parenti, ha detto chiaramente che non c’era tempo da perdere, pur trattandosi di cose prescritte dalla Legge o appartenenti a costumi e relazioni umane. E quando subito dopo ha inviato in missione settantadue suoi discepoli, ha raccomandato loro di non attardarsi lungo la strada, o in città e case che non li accogliessero.

In questo clima mi sono presentato io, dottore della Legge, per chiedergli cosa pensasse circa la discussione delle scuole rabbiniche sul comandamento principale, che racchiudesse in sé il nocciolo di tutta la Scrittura. Luca ha scritto nel suo vangelo che l’ho fatto per metterlo alla prova. Cosa volevo provare? La sua preparazione? La sua originalità? Il prendermi in considerazione, malgrado la sua fretta e quel momento topico della sua esistenza? Forse un po’ di tutto questo…

La prima risposta è stata una domanda, che rimandava alle Scritture, alla maniera degli insegnamenti rabbinici: “Che cosa sta scritto nella Legge?”. Insomma, niente di nuovo. Ma la seconda domanda, immediatamente dopo, mi ha fatto barcollare: “Come leggi?”. Quindi non è solo questione di contenuti, ma di atteggiamento di fronte allo scritto. Il comandamento principale lo si scopre davvero usando intelletto e cuore, teoria e vita. Naturalmente sulla teoria ero ben preparato, ma sulla pratica ero confuso. Per questo la mia domanda sul prossimo, dalla quale è scaturita la bellissima parabola del buon samaritano. In fondo l’umanità dovrebbe essermi grata per aver motivato un insegnamento così profondo e alto.

La parabola del buon samaritano è nota a tutti, compreso ogni suo risvolto sull’amore al prossimo e sul farsi prossimo, da parte di Dio verso di noi, e nostro verso chi è nel bisogno. Io l’ho sentita allora come una risposta alla mia vita, oltre che alla mia domanda.

Io ero il tale che scendeva da Gerusalemme a Gerico, dalla città santa alla città degli uomini. La mia lettura della Legge senza il “come” del coinvolgimento del cuore, era un allontanarsi da Dio e dalla sua casa. Una discesa che avrebbe potuto comportare l’imprevisto del dubbio e delle certezze svanite; l’incontro con ferite fisiche e spirituali, gli assalti da parte della vita reale, fino a lasciarmi mezzo morto nella mia esperienza esistenziale, se fossi vissuto al freddo riparo delle norme, senza il calore di una presenza amorevole e compassionevole, ricevuta e donata. Perché senza amore ci si dissangua poco a poco, rimanendo forse ancora in vita, ma mezzo morti, passivamente prostrati, incapaci di vivere in pienezza.

Io ero il sacerdote e il levita, attento a non sporcarmi le mani con le necessità degli altri, in nome di una asettica purezza rituale e scritturistica, che sfocia in atteggiamenti di indifferenza o diffidenza di fronte a chi potrebbe “disturbare” la mia tranquillità o rubare tempo ai miei impegni “alti”, accomodato a una ritualità senza carità e a una religiosità senza fede. E così ero anche un po’ brigante assaltatore, o almeno complice passivo.

Con quella parabola Gesù mi ha guarito; con il suo comportamento mi ha salvato. Egli, definito “eretico” e “samaritano” dalle nostre autorità religiose. Pur vivendo giorni di particolare tensione interiore; malgrado il suo voler giungere in fretta alla meta, senza attardarsi, Gesù ha avuto tempo per me, ha preso a cuore i miei dubbi. Si è fermato tutto il tempo necessario. Si è preso cura della mia lontananza dalla verità. Ha ridonato vita alla mia religiosità ormai esangue e irrimediabilmente vuota, allargando il mio cuore a una fraternità senza barriere culturali, religiose o storiche. Ho scoperto il vero Dio nei fratelli, e gli altri, tutti, fratelli in Dio. Mi sono ritrovato. Discepolo di questo Maestro, a condividere, con lui e con gli altri, l’olio che guarisce e il vino che allieta il cuore.  

 

fra Matteo

giovedì 10 marzo 2022

Se le pietre potessero parlare (Lc 4, 1-13)

Il Vangelo da dentro

Se parlassero le pietre... Quante cose avrebbero da dire e quante storie da raccontare. Il fatto è che noi parliamo; siete voi che non avete la capacità di ascoltarci. Avete perso quasi del tutto quella speciale sensibilità che permette di sentirsi in simbiosi con la natura e di ascoltare la sua voce. Riconosco che in alcuni luoghi particolari, quelli che definite "dello spirito", le pietre conservano ancora un potere evocativo, e vi "parlano" trasmettendo un messaggio legato a un determinato fatto o personaggio. Le pietre del deserto palestinese ne hanno di storie da raccontare, molte di esse legate ai racconti biblici. Naturalmente ne ho anch'io. Tra le persone incontrate durante la mia millenaria permanenza desertica, chi maggiormente mi ha colpito è stato Gesù di Nazareth.

Appena l'ho visto, ho capito subito che aveva un non so che di differente rispetto a  tutti gli altri. Il suo volto rifletteva, a un tempo, gioia celestiale e umana ansia e preoccupazione, che non si contraddicevano né erano in lotta tra loro, anzi, si armonizzavano in maniera inesplicabile. Mai mi era capitato di incontrare una persona simile, di scorgere una tale armonia e bellezza in un uomo, di sentirmi così in pace come al cospetto di Gesù. E non si può certo dire che di uomini di Dio ne abbia visti pochi in questo deserto di pietre e sabbia, di vuoto esteriore e pienezza interiore da ritrovare, di silenzi e intimi colloqui, di orizzonti spaziosi ed essenzialità di visioni. Lui però aveva qualcosa di diverso. Senza dubbio alcuno era un uomo; ma aveva in sé una impronta particolare, divina. Al suo arrivo percepii il soffio luminoso dello Spirito di Dio che lo stava impulsando, accompagnando e sostenendo. Noi pietre certe cose le conosciamo e le sentiamo. Le vostre menti invece sono spesso chiuse ad accogliere il mistero della vita e delle persone, e il vostro cuore è molte volte indurito (mi permetto di chiarire che è offensivo definire tale durezza come quella di una pietra).

Tra tante pietre, aveva scelto me. Ogni giorno mi cercava per sedersi a pensare, per inginocchiarsi a pregare. Mi sentivo orgogliosa di questa elezione e del mio essergli utile. Mi piace pensare che abbia voluto chiamare Pietro un suo apostolo proprio in ricordo di quei giorni e in mio onore. Quaranta giorni insieme, tra preghiere, riflessioni e digiuno. Lo vedevo indebolirsi fisicamente, man mano che andava fortificandosi nello spirito. Sentivo pena per il suo stato di salute e la sua progressiva debolezza. Al termine di quella permanenza, Gesù ebbe fame. E allora si presentò il diavolo per metterlo alla prova. Ma trovò pane per i suoi denti (scusate l’ironia dell’immagine usata, in maniera non casuale…).

Quando gli propose di trasformarmi in pane per saziare la sua fame ai limiti della sopravvivenza, dopo tutto quel digiuno, ero tanto in pensiero per la sua salute da essere disposta a sacrificarmi per il suo bene. Eppure Gesù, malgrado fosse allo stremo delle forze e lo stomaco desse gli ultimi rantoli di reclamo, volle rispettare la mia identità. Dio mi aveva creato pietra, con un ruolo ben preciso nell’universo e con la missione del racconto muto. Una bella lezione di umanità e dignità. Gli sarò eternamente grato per avermi insegnato il rispetto che non ammette strumentalizzazioni.

Poi gli disse che avrebbe potuto consegnargli il potere su tutta la terra, se solo lo avesse adorato, facendosi suo schiavo. E Gesù, guardando con affetto me, piccolissima parte della bellezza e consistenza della madre terra, gli ha risposto che preferiva la libertà divina del non possesso, del servizio e della comunione, piuttosto che la schiavitù del potere umano e del dominio frutto di divisione. Ha poi aggiunto, qualora ce ne fosse stato bisogno, che Dio è Padre e Creatore (verità che il diavolo conosce benissimo), e ha creato il mondo e gli uomini per la bellezza e la libertà, beni da custodire come un tesoro, soprattutto dagli attacchi di satana, menzognero divisore.

Infine, il diavolo ha fatto un estremo tentativo, portandolo sulla cima del pinnacolo del tempio e invitandolo a convincere le folle con la spettacolarità. Ma Gesù ha guardato con ammirazione quelle pietre levigate e ben armonizzate tra loro, e credo che abbia pensato con gioia e gratitudine a me, alla mia piccolezza e nascondimento, al mio essere periferica rispetto al centro della storia e del culto. Noi pietre accettiamo di lasciare il nostro habitat e di essere lavorate con l’unico fine di edificare luoghi per ospitare gli uomini o per dare culto a Dio. La nostra visibilità non nasce dal desiderio di apparenza e spettacolarità, ma dalla volontà di essere utili alla vita dell’uomo, mostrare di quanta bellezza e armonia è capace l’ingegno umano, dare onore alla grandezza di Dio. Gesù non ha abboccato all’inganno del diavolo. Un giorno, forse ricordando la sua esperienza di deserto e di incontro con le pietre, con me pietra, affermerà che la Chiesa, che da lui sarebbe nata, avrebbe dovuto fondarsi sulla roccia che è Dio, e avere lui, il Cristo, come pietra angolare della costruzione.

Ci siamo rincontrati tempo dopo. Non più nel deserto. C’era una donna a terra accusata di adulterio, e la folla pronta a lapidarla. Non ero la pietra da lui conosciuta, ma un insieme di sassi a cui ero stata ridotta a causa di vicende lunghe da raccontare. Pur nella mia disgregazione, Gesù mi ha riconosciuta. Ed ha dato ascolto al mio grido muto di dolore e ribellione. Noi pietre non siamo nate per distruggere o uccidere, ma per costruire case, ponti e monumenti; per custodire la vita, favorire incontri, esaltare la bellezza.   

fra Matteo

domenica 27 febbraio 2022

Io, fariseo e rabbino (Lc 6, 39-45)

 Il Vangelo da dentro

Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti (Lc 6, 17-19).

Ci sono anch’io in questa accozzaglia di gente proveniente da tutte le parti. Mi chiamo Sedekía, che significa “Dio è giustizia”, e sono stato mandato da quelli del mio movimento religioso, i farisei, per rendere giustizia a Dio e alla verità. Naturalmente provengo dalla ortodossa Giudea, e da Gerusalemme, la città di Jahwé, inviato per esaminare questo “maestro” senza cattedra, di cui tanto si parla. Le virgolette sono volute, perché, a differenza di me, che, per diventare rabbino, ho studiato alla scuola di un maestro riconosciuto, egli è, diciamo, un “improvvisatore”. All’improvviso è apparso sulla scena e da subito ha attratto tante persone, con la sua parola e con i fatti straordinari che gli si attribuiscono. Inoltre, esercita in Galilea, una regione poco più che pagana, a causa della presenza di molti stranieri, per il suo trovarsi lungo le due vie importanti di commercio tra l’Oriente e l’Egitto. Per di più, non si preoccupa di condividere il suo tempo con pubblici peccatori e altre categorie di persone classificate come impure, incurante di incorrere così in impurità legale. Pare che gli interessi solo il loro bene. Ed anche in questa pianura vedo che si lascia avvicinare da tutti, dispensando sorrisi e parole di misericordia e amore, lasciandosi toccare ed elargendo abbracci e pacche di incoraggiamento. Insomma, dal mio punto di vista di fariseo e rabbino della Giudea, un vero scandalo!!

Eppure non riesco a prendere la distanza che vorrei, per un giudizio obiettivo, e che dovrei, per non rischiare di contaminarmi anche io. Le sue parole e i suoi gesti sono per me scandalosamente affascinanti. Il suo insegnamento sull’amore e la misericordia non è del tutto nuovo rispetto a quanto Dio ci chiede nella Scrittura; ma lui porta tutto ad altezze meravigliosamente estreme, facendoci intravvedere e sognare orizzonti di una bellezza inaudita, pur se difficile da raggiungere. L’amore che annuncia tocca vertici da vertigini, che danno brividi di gioia e timore, di spinta ad osare e paura di non essere all’altezza. Lo sguardo spazia e si inebria di luce e panorami nuovi; ma la consapevolezza dei tuoi limiti e la realtà che ti circonda sono un freno spesso duro da togliere, in modo da poterti finalmente lanciare in un’avventura di vita senza molte sicurezze umane, contando però sull’aiuto e sull’esempio di Dio.

Le ultime parole di Gesù, pur se rivolte a tutto l’uditorio e in particolare ai suoi discepoli, mi sembrano indirizzate particolarmente a me e a coloro che mi hanno mandato ad indagare. Per dirla tutta e con franchezza, sono arrivato qui carico di pregiudizi e preconcetti sulla Galilea e su Gesù, quegli stessi che hanno i miei fratelli di religione, il movimento dei farisei. E allora, ecco la chiosa finale di Gesù sul cieco che pretende di guidare un altro cieco; sulla pretesa assurda di voler correggere l’altro, avendo una trave nell’occhio che non ti permette di vedere bene; sul giudicare gli alberi non dalle apparenze ma dai frutti, e così anche gli uomini; sul far “funzionare” il cuore nelle relazioni umane e nelle parole che si dicono. Si direbbe una critica a tutti quegli atteggiamenti e comportamenti che spesso assumiamo noi farisei, che ci riteniamo i giusti per eccellenza, perché viviamo alla lettera le norme della Legge e non ci immischiamo con gente che consideriamo mediocre e peccatrice. E tuttavia, troppe volte incapaci di autocritica e di misericordia, con il cuore arido, i giudizi taglienti e lo sguardo fulminante. Non certo testimoni credibili di quel Dio che diciamo di servire e che dovremmo annunciare al mondo; anzi, dimentichi di quanto amore Egli abbia profuso per il suo popolo, di quanta misericordia abbia esercitato verso i suoi peccati, di quanta pazienza e bontà abbia avuto nei confronti delle continue ribellioni e infedeltà.

Io, Sedekía, sono giunto fino a questa pianura di Galilea per rendere giustizia a Dio e alla verità, volendo giudicare Gesù secondo i miei schemi mentali e le mie convinzioni preconcette. Mi ritrovo invece in piena crisi salutare. Devo riconoscere che Gesù annuncia quel Dio da noi frequentemente tradito, e lo incarna negli atteggiamenti e nelle azioni, coniugando perfettamente e biblicamente misericordia e verità, giustizia e pace, come recita il salmo 84. Partito dal cuore dell’ortodossia e della pratica religiosa verso questa periferia geografica ed esistenziale, con atteggiamento snob, una visione chiara e risposte già confezionate, me ne torno a Gerusalemme sconvolto, con un bagaglio di dubbi e domande. Pieno però anche di una gioia “strana”, frutto dell’esperienza di questi giorni; dell’incontro con tutte queste persone “differenti” da me, con le quali ho condiviso, forzatamente e fortunatamente, spazi e tempi; ma soprattutto frutto dei momenti di comunione e di ascolto di Gesù Maestro (ormai senza più virgolette pregiudiziali, e con la “M” maiuscola).

fra Matteo


domenica 20 febbraio 2022

Io, straniero (Lc 6, 27-38)

Il Vangelo da dentro

Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti (Lc 6, 17-19).

Così Luca descrive nel suo Vangelo la provenienza della moltitudine di gente presente in quella pianura. Non lo si può certo accusare di discriminazione se non parla di me. Nessuno si accorse della mia presenza tra tutte quelle persone, molte delle quali provenienti dal litorale libanese, perciò stranieri, e io più di loro. Mi presentai in incognito, io, ufficiale romano di stanza a Cesarea sul mare, situata più a sud di Tiro e Sidone e sede del governatore inviato da Roma.

Sono sempre stato uno spirito inquieto, in ricerca. Da giovane ho provato ad essere felice vivendo a pieno i piaceri della vita e l’euforia delle vittorie militari. Ma, passato il momento, mi ritrovavo vuoto di cuore e di mente. Più tardi ho inseguito la felicità nella vita regolata dal diritto, di cui a Roma siamo maestri, e nella filosofia dei greci. La mia mente ne ha tratto ricchezza, ma il cuore si è mantenuto nella sua aridità. Una felicità a metà. Durante una mia lunga permanenza a Roma sono venuto a contatto con la cultura e la religione degli ebrei, che vivono nel loro bel quartiere sulle sponde del Tevere, e con alcuni di loro ho stretto una sincera amicizia. Mi ha affascinato il loro libro sacro, la Bibbia. Ho letto e riletto le sue pagine. Mi piace questo loro Dio, addirittura unico, senza un olimpo di dei al suo fianco, che sceglie un popolo tra i più piccoli del tempo per farne il suo popolo, in favore del quale interviene sempre con misericordia, malgrado le loro ribellioni, la loro testardaggine e il cuore indurito.

Sentivo però che mi mancava ancora qualcosa. E così, quando si è presentata l’occasione di poter venire a prestare servizio in Palestina, l’ho presa al volo, senza pensarci su due volte. Avevo desiderio e necessità di conoscere più da vicino questa gente e la loro religione. Non me ne sono pentito; non ho trovato ancora però quel senso pieno di vita che vado cercando da sempre. Mi manca comunque qualcosa; il che mi rimette continuamente in cammino, pellegrino sui sentieri che conducono alla pace e alla felicità.

Come mai sono arrivato fin là, a quella pianura della Galilea? Mi ci ha portato la curiosità di voler conoscere Gesù di Nazareth, maestro del quale si parlava diffusamente da qualche tempo a questa parte, la cui fama aveva valicato i confini della regione e della nazione. Chissà che non avesse qualcosa da dire alla mia ricerca. Ho cercato il suo villaggio di provenienza sulle carte geografiche, ma non l’ho trovato. Mi hanno riferito che è talmente piccolo e insignificante che hanno ritenuto di non riportarlo sulle mappe della Galilea. Eppure questo maestro, celebrato da tutti, vi aveva passato trenta anni della sua vita, nascosto come il suo villaggio, fuori da coordinate di riferimento, prima di iniziare a predicare pubblicamente la vicinanza del Regno di Dio e la conversione. Insomma, ero venuto per ascoltarlo, come molti. Tanti altri si capiva che erano lì per mettergli davanti i propri guai fisici o spirituali, confidando nelle sue capacità di guarigione e salvezza.

Gesù, sceso dal monte, prese allora la parola, annunciando di voler parlare dell’essere felici. Parve avermi letto nel pensiero. Mi aspettavo un bel trattato sulla felicità, alla maniera dei miei amati filosofi; invece ha sconvolto l’uditorio dichiarando beate alcune categorie di persone che noi avremmo definito minimo “sfortunate”: i poveri, chi ha fame, chi piange e chi è perseguitato a causa del suo nome. Perché? Non per una condizione di vita che è dovere di tutti aiutare a superare; ma per la loro necessità di doversi aprire alla relazione, con Dio e con i fratelli, trovandosi nella condizione di non bastare a sé stessi, e quindi di non correre il pericolo della autoreferenzialità escludente e discriminante, che, al contrario, porta pericoli e guai per tutti. Sono infatti le relazioni che odorano di vera spiritualità e umanità a renderci felici.

È poi passato a parlare di amore, raggiungendo vette a prima vista impossibili da scalare. Amare addirittura i nemici… Rispondere al male con il bene… Essere misericordiosi alla misura di Dio, non tanto “come”, ma “con” Lui e “perché” Lui lo è con noi (un dio così non esiste nell’olimpo dei nostri dei…). Concetti straordinariamente affascinanti, ma pericolosi per la politica e gli equilibri internazionali dell’Impero Romano, che vedrebbe certamente la fine se si affermassero. E infatti si è cercato di inchiodarli con lui su una croce, non riuscendo però a farli morire con lui. Personalmente il nemico ho imparato a rispettarlo, ma amarlo è troppo!! Eppure, sento che sarebbe giusto e bello se fossimo capaci di tanto, e che il mondo sarebbe senz’altro più vivibile se aperto al bene gratuito e disinteressato.

Sono tornato a Cesarea, affascinato e sconvolto da quella esperienza e da quelle parole. Fascino e turbamento che mi sono portato dietro come bagaglio prezioso, pur nella consapevolezza della difficoltà a vivere secondo quei criteri. Più di ogni altra cosa, mi ha sempre accompagnato l’incontro con Gesù. A un certo punto ho incrociato il suo sguardo, e mi è parso che lui stesse cercando il mio, in mezzo alla gran folla che lo circondava. Occhi che brillavano di quell’amore e quella misericordia che stava proponendo a tutti. Non ho più incontrato un maestro altrettanto credibile, nel quale si identificassero messaggio e testimonianza di vita, parole e amore incarnato. Tuttavia, il ricordo di quella esperienza e di quello sguardo non hanno mai smesso di accompagnarmi e di darmi il coraggio di andare avanti nella mia personale ricerca di una vita migliore e di un tempo più pieno.

  

fra Matteo


domenica 13 febbraio 2022

Io, discepolo (Lc 6, 13-26)

 Il Vangelo da dentro

Erano stati giorni intensi. Predicazione nei vari paesi della Galilea; guarigioni del corpo e dello spirito; controversie con le autorità religiose sul digiuno e l’osservanza del sabato. La sua fama andava aumentando a dismisura e la gente accorreva numerosissima, per ascoltarlo o per assistere a qualche miracolo. A volte non si riusciva neanche a mangiare. Ma Gesù trovava sempre il tempo per isolarsi in luoghi appartati, ad ore della notte, ed entrare in dialogo con suo Padre attraverso la preghiera. Dalla quale ritornava tra noi luminoso e incoraggiante. Comunque, sempre la preghiera precedeva decisioni importanti da prendere.

Quella volta parve averci letto nel pensiero, quando decise che si andasse tutti insieme su una altura, noi e lui soli, lontani dal frastuono e dalle attività. Sentivamo il bisogno di staccare un po’ la spina, di riposare. Una santa allegria ci aveva invasi mentre salivamo con lui. Ci sembrava di ascendere verso l’altura di Sion, verso il Tempio in Gerusalemme, tanto era forte percepire la presenza del divino quando eravamo con lui. L’ascesa è stata accompagnata dalla recita e dal canto dei salmi di ascensione, che riempiono le labbra e il cuore dei pellegrini mentre sono in prossimità di Gerusalemme. La sera, come suo solito, si appartò in preghiera, e vi rimase tutta la notte.

Al mattino ci convocò a sé. Aveva evidentemente qualcosa di importante da comunicarci, frutto del suo dialogo notturno con il Padre. Ci emozionò, dicendoci che eravamo per lui la sua nuova famiglia, che non avrebbe potuto sperare fratelli migliori e più numerosi di quelli che il Padre gli aveva dato; ma che era giunto il momento di nominare alcuni che gli stessero più da vicino e portassero avanti il suo annuncio di salvezza, qualora a lui non fosse più stato possibile. Aveva pensato a dodici di noi, che rappresentassero le dodici tribù del nuovo Israele, per noi e per tanti altri, popolo della nuova alleanza. Essi avrebbero avuto il compito di avviare il cammino, di formare e animare le comunità, di vegliare su possibili deviazioni dottrinali o morali. Almeno fino alla loro morte. Poi si sarebbe proseguito, forti del loro annuncio e testimonianza, saldi e fedeli, solidali e gioiosi, fino al giorno del ritorno di lui nella gloria.

Confesso di aver sentito un certo vuoto e amarezza al constatare che il mio nome non era nella lista dei dodici apostoli. Ci avevo sperato. Umanamente è normale; penso che possiate capirmi. Ero rimasto “discepolo”. In seguito, l’esperienza con Gesù, il suo insegnamento e il suo esempio di vita mi hanno fatto capire che nelle nostre comunità ogni “chiamata” è finalizzata a un “invio”, e ciò che agli occhi degli uomini può sembrare “ascesa” o “potere”, ha come fine l’attenzione amorosa verso gli ultimi e il servizio verso tutti.

Discesi dal monte, abbiamo trovato una grande moltitudine ad attenderci, da tutte le parti di Israele e delle terre confinanti. Il Maestro ha preso la parola e ci ha illustrato la via, le condizioni per essere felici. Le sue parole, le sue “beatitudini” ci hanno scioccato. Il contrario di quello che noi e tutti ci saremmo aspettato. Tuttavia, vi era un “voi” che ci identificava come “beati”. Noi, poveri, che avevamo lasciato tutto per seguire lui, fidandoci di lui. Noi, affamati, che ci saziavamo delle sue parole e della comunione con lui, dimenticando anche di mangiare quel poco che avevamo. Noi, afflitti, incapaci di rimanere indifferenti davanti al dolore altrui, mossi invece a sentire viscere di compassione verso i bisognosi, proprio come lui ci aveva insegnato e mostrato. Alla fine della sua vicenda terrena, avremmo compreso anche la beatitudine della derisione e persecuzione a causa del suo nome, che però al momento ci rimase oscura.

Insomma, ci fece capire che la vera beatitudine consisteva nel vivere in comunione con lui e come lui, nell’amore di Dio e del prossimo. Ed era vero. Lo sperimentavamo giorno per giorno. Ancora una volta aveva ragione lui. 

fra Matteo

 

sabato 12 febbraio 2022

63 anni… passaggio a situazione endemica?

È la speranza di questi giorni: passare da una situazione pandemica a una endemica. Imparare insomma a convivere con il virus e lui con l’uomo, per la sopravvivenza di entrambi. “Se non puoi vincere il nemico, fattelo amico”, recita un vecchio e saggio detto.

Bella sfida la convivenza, la convivialità delle differenze. Oggi più che mai necessaria e vitale. Soffiano all’est venti di guerra; i conflitti armati continuano a macchia di leopardo, in quella che il Papa definisce una terza guerra mondiale “diffusa”; le migrazioni-fuga da situazioni di fame, di guerra e repressione politica si susseguono senza soluzione di continuità; i regimi autoritari e violenti sembrano addirittura in aumento; i diritti umani, delle minoranze e delle donne, sono spesso calpestati; lo sfruttamento indiscriminato delle risorse della terra non si placa e l’ecosistema è in grave pericolo; in Italia, dopo la rielezione di Mattarella a presidente della Repubblica (scelta oculatamente obbligata), i partiti sono entrati in guerra tra loro e al loro interno. A livello personale, da pochi giorni ci ha lasciati Angelo, amico caro fin dal liceo.

Per farla breve, uno scenario che pare non lasciare posto e scampo alla speranza. Eppure, il compleanno è celebrazione della vita. Ancorché ostinatamente. E ancora una volta mi sento di celebrarla, insieme a tutto ciò che mi ha regalato, alle storie che mi hanno accompagnato e alle relazioni che mi hanno arricchito. Perché se è pur vero che il telone di fondo è quello descritto sopra, il palcoscenico può e deve essere occupato da attori che tessano una trama di bene – e grazie a Dio ce ne sono ancora tanti, ma tanti –, che dimostrino coraggio e capacità di cambiare lo scenario, forzando le ovvie conclusioni, per continuare a raccontare storie belle di vita e di promozione umana. E aiutare Dio a sorridere.

36, anni speculari di 63 – Il gioco continua, insieme all’obbligo del ricordo e alla gratitudine.

36 anni: 1995. Ottavo anno della mia presenza a Copertino. La mia prima obbedienza dopo i sei anni di studi a Roma. Non è stato facile, il primo mese, adattarmi a questa nuova esperienza. Il salto dalla capitale al paese mi è costato, come anche il rinunciare a un progetto che mi era stato prospettato in Assisi. Devo ringraziare i frati allora di comunità, Nicola in particolare, mio coetaneo, e la gente di Copertino. Non tanto per l’aiuto ad adattarmi, quanto per avermi fatto sentire amato, accolto. Ho capito di essere a casa, in famiglia. A volte mi fermo a pensare a come sarebbe potuta essere la mia storia se fossi andato ad Assisi. Si tratta più di un gioco mentale, di curiosità immaginativa, perché, di fatto, almeno sinora, sono molto contento della mia vita, che leggo sotto l’ottica della Provvidenza, pur con i miei limiti ed errori.

Una scenetta simpatica, che mi ha fatto sorridere e che non dimentico, ha caratterizzato il mio 11 febbraio del 1995, anno in cui noi francescani abbiamo celebrato gli 800 anni della nascita di S. Antonio di Padova. Entrato in cucina per la colazione, vi ho trovato padre Egidio, che stava sbucciando un frutto. Le due cuoche, Gina ed Anna, mi hanno subito fatto gli auguri. Al che padre Egidio mi ha chiesto il perché di quegli auguri. Gli ho risposto, con la baldanza dei miei anni giovani, che era il mio compleanno. E lui: Quanti anni compi? Io: 36. Di rimando padre Egidio, e con la sua innocente semplicità e spontaneità: Ah, gli anni che aveva S. Antonio quando è morto.

Chiaramente non c’era nessuna cattiveria o cinismo in quella frase; padre Egidio, lo sappiamo tutti, ne era incapace. E infatti io ho sorriso per quella coincidenza a cui non avevo pensato. Però è pur vero che si deve essere santi sempre, anche in giovane età. Io, a tutt’oggi, sono consapevole che di cammino verso la santità ne ho ancora parecchio da fare, e forse conviene che mi sbrighi e mi decida!!  

Festival di Sanremo – A differenza dell’anno scorso, quando per la pandemia era slittato a marzo, si è tenuto nei giorni previsti, quelli dell’inizio di febbraio, precedendo di pochi giorni il mio compleanno. Quindi, stavolta potrò riprendere il gioco delle canzoni che più mi hanno colpito, e che lascio come ricordo e “colonna sonora” dei miei 63 anni. Devo confessare che, non seguendo la kermesse sonora, in genere conosco o riascolto le canzoni classificatesi ai primi tre posti, facendo forse torto ad altre più meritevoli. Quest’anno ho guardato, registrati, lo show di Fiorello e di Checco Zalone, e, in diretta, parte della puntata dedicata alle covers.

La mia favorita è stata “Apri tutte le porte”, di Jovanotti, cantata da Gianni Morandi. Un vero inno alla vita, con un testo non banale e una musica coinvolgente. A Morandi, inoltre, calzava a pennello, sia come voce che come “testimonial” del messaggio contenuto nel testo. Il sole, a cui la canzone invita ad aprire le porte, ha caratterizzato la mattina del mio compleanno, insieme al mare. Sono stato a passeggiare, vista la gran bella giornata, nel tratto tra Torre Squillace e la penisola dell’Astrea, riserva naturale di Porto Cesareo. E se non fossi così freddoloso, poteva scapparci anche un bagno fuori stagione.

Il festival lo ha vinto la canzone “Brividi”. Ma a me i brividi li ha fatti venire, come sempre quando la ascolto, la cover di “A muso duro”, di Pierangelo Bertoli, portata sul palco da Sangiovanni e Fiorella Mannoia. A qualcuno potrebbe non essere piaciuta l’esecuzione (a me non è dispiaciuta), ma si tratta di un capolavoro di musica e poesia, da ascoltare e riascoltare. “Canterò le mie canzoni per la strada / ed affronterò la vita a muso duro / un guerriero senza patria e senza spada / con un piede nel passato / e lo sguardo dritto e aperto nel futuro… e alla fine della strada / potrò dire che i miei giorni li ho vissuti”.




domenica 6 febbraio 2022

Zebedeo (Lc 5, 1-11)

 Il Vangelo da dentro

Il trasferimento di Gesù da Nazareth a Cafarnao è passato quasi inosservato. Ci era giunta notizia di un maestro atipico, che, pur non avendo frequentato nessuna scuola rabbinica, era capace di dirimere questioni in modo nuovo e di scaldare i cuori con l’annuncio della vicinanza del Regno e l’invito alla conversione. Ma quando, per la prima volta, ha preso la parola nella nostra assemblea, invitato dal capo della sinagoga, allora ci siamo subito resi conto che la fama non rendeva giustizia alla sua persona. Lui era molto, ma molto di più. Non ci saremmo stancati mai di ascoltare quella sua voce forte e suadente, di farci trascinare dalle sue visioni nuove su Dio, di entusiasmarci di fronte alla sua proposta di amore e fratellanza universali. I miei due figli, Giacomo e Giovanni, ne rimasero folgorati, insieme a tanti altri. Da allora non hanno perso occasione per stargli vicino e abbeverarsi ai suoi insegnamenti.

Presto la sua fama si diffuse in tutta la regione. Venivano ormai folle ad ascoltarlo. Quella volta fu costretto a chiedere in prestito la barca di Simone e addentrarsi alcuni metri nel lago, così da avere un pulpito da dove poter parlare alla gente assiepata sulla riva. Il dopo lo conoscete dal vangelo. Simone si è fidato della parola di questo non pescatore, della sua indicazione professionalmente stramba, e la pesca è stata abbondantissima. I miei figli, soprannominati “figli del tuono” per la loro impetuosità, naturalmente non ci pensarono due volte ad accogliere il suo ulteriore invito a seguirlo, a diventare suoi discepoli in quella scuola di vita, itinerante e aperta a tutti. Insieme a Simone, loro socio, lasciarono tutto per correre dietro a una promessa strana, quasi incomprensibile al momento, ma con una grande forza di attrazione: diventare pescatori di uomini (in seguito avrebbero capito che si trattava di generare uomini alla vita in Dio, attraverso quella Parola che loro avevano accolto, di cui si erano fidati, e che aveva rigenerato anche le loro vite).

Come ci rimasi io?!? Difficile da dire. Avevo lavorato tanto per tirare su la nostra impresa familiare di pesca, della quale i miei figli avevano preso in mano le redini, con competenza e passione. Gli affari andavano ottimamente. Erano addirittura aumentati, dopo esserci messi in società con la famiglia di Simon Pietro. Insomma, stavamo bene, non ci mancava niente. E le giornate erano diventate ancor più radiose, per noi e tutta Cafarnao, dall’arrivo di Gesù. L’aver lasciato tutto, famiglia e mestiere, per andare dietro a una promessa, mi sembrava un azzardo. Ero preoccupato per come sarebbero andati gli affari della pesca (comunque, devo confessare che andarono molto meglio di quanto avessi previsto in quel momento). Non riuscivo però ad essere arrabbiato, ad avercela con loro, né tantomeno con Gesù. Semmai ero perplesso. Pensavo e ripensavo a come l’arrivo di quel nazareno avesse cambiato le nostre vite, in meglio. A dirla tutta, se avessi avuto meno anni e più coraggio, probabilmente avrei fatto la stessa scelta dei miei figli.

Dopo la morte di Gesù a Gerusalemme, Giacomo e Giovanni, insieme a Pietro e a qualche altro, sono tornati a casa. Ci raccontavano di averlo visto vivo; parlavano di resurrezione dai morti. Hanno ripreso il lavoro di un tempo; ma era evidente che non avevano lo stesso entusiasmo e interesse di prima. Le loro menti e il loro cuore erano altrove. Non si può dire nemmeno che fossero tristi. Erano come assenti, bruma in attesa di diradarsi, di dare spazio al sole, che sarebbe certamente spuntato. Indecisi, quasi in stallo, tra la nostalgia per il tempo passato con Gesù, e un futuro dai contorni indefiniti, da determinare con una scelta coraggiosa di vita.

Finché una mattina presto, al ritorno da una notte di pesca infruttuosa, come quella prima volta, Gesù si è presentato, risorto, sulla riva e ha ripetuto il miracolo dell’inizio. Avevano bisogno di quel segno, di quel dialogo intriso di promesse di amore e di invio missionario. È stato un rivivere la gioia e la chiamata di quel primo momento. Sono ripartiti, ancora una volta, lasciando di nuovo tutto, e non sono più tornati. Luminosi finalmente in viso, dopo le lacrime e i traumi gerosolimitani, con la pace nel cuore e il fuoco ai piedi. Non ho potuto fare a meno di benedirli e di… invidiarli.

 fra Matteo

 

venerdì 4 febbraio 2022

A Nazareth (Lc 4, 21-30)

Il Vangelo da dentro

Il suo arrivo a casa mi ha colto di sorpresa. Sapevo che sarebbe tornato a farmi visita. Me lo aveva promesso, quando ha lasciato la bottega di suo padre e il lavoro di falegname per seguire una voce interiore, una intuizione del cuore, che lo ha portato a intraprendere il cammino di predicatore itinerante. L'eco del suo successo è giunta a Nazareth. Si dice che parla con una autorità e un fascino differenti da tutti gli altri maestri, che le sue parole profumano di coerenza e novità, che compie guarigioni di corpi e anime. Si è costituito intorno a lui e al suo annuncio un gruppo di discepoli che pendono dalle sue labbra. In ogni città o villaggio dove entra riceve una accoglienza entusiasta, suscitando però anche qualche contrasto con le autorità religiose, che si sentono minacciate nel loro ruolo e potere, da lui che non ha i titoli per essere maestro e avere dei discepoli al suo seguito.

Il suo arrivo mi ha riempito di gioia, certo. Non ci vedevamo da qualche tempo, dai fatti di Cana, da quelle nozze nelle quali lo avevo quasi obbligato ad anticipare quella che Lui chiama la "sua ora". Eppure si è fatto spazio in me anche una certa preoccupazione, come un retrogusto amaro che non riesco a spiegarmi del tutto. Perché si è presentato da solo, senza i suoi discepoli? Che pure lo avevano seguito a Cana e lo accompagnano ovunque. Una assenza che ho colto come un presagio di qualcosa di negativo che potesse o stava per accadere, e dal quale aveva voluto risparmiare i suoi discepoli, la sua nuova famiglia. Non ho avuto il coraggio di esporgli questo mio sentimento, né di fargli domande al riguardo. Volevo godermi mio figlio. Ho conservato tutto nel mio cuore, come spesso mi accade quando si tratta di lui.

Il sabato ci siamo recati alla sinagoga. La sua presenza nel villaggio aveva fatto sorgere grandi e numerose aspettative. Come di frequente avveniva finché è vissuto qua, e riconoscendo la sua particolare preparazione biblica, gli fu dato il rotolo della Scrittura per quel giorno, una profezia di Isaia riguardo i tempi e le azioni salvifiche del Messia promesso. Lo lesse con la sua bella voce e sedette. Gli oc
chi di tutti lo scrutavano ansiosi, desiderosi di ascoltare un suo commento. Il suo silenzio riempì di pathos l'ambiente. Con il capo chino e gli occhi chiusi, sembrava stesse cercando le parole adatte per quello che voleva dire.

Poi le sue parole risuonarono nette e distinte. Una deflagrazione che sconcertò i presenti: il figlio del falegname arrogava a sé la realizzazione di quella profezia. La sua parola, la sua presenza, la sua opera era tutto ciò che l'uomo potesse sperare per essere felice. Annuncio bellissimo!! Notizia stupenda!! Ma non quello che tutti si aspettavano di udire. Anzi, non erano venuti per ascoltare, ma per vedere, e cose eccezionali. D'altronde non erano loro i suoi concittadini e familiari? Non avevano più diritto degli altri di essere spettatori e destinatari di azioni spettacolari e guarigioni miracolose?

A me è parso di capire quale grande considerazione avesse Gesù di loro, con quali aspettative era tornato a Nazareth. Però loro no. Gli esempi di azioni miracolistiche compiute da Dio in favore di stranieri, avrebbero dovuto far capire che mio figlio riteneva che loro non ne avessero bisogno. Certe cose sono per convincere e convertire i lontani, per coloro che non hanno la nostra fede, per chi non ha conosciuto il Dio dei padri, il Dio Padre e il suo amore verso il suo popolo. Noi abbiamo la sua Parola, le sue Promesse, la sua Presenza. Ci dovrebbe bastare. Sarebbe dovuto bastare ai nazaretani per riconoscere ed accogliere in Gesù la Parola fatta carne, l'Amore resosi visibile.

A un certo punto la perplessità ha generato indignazione, e la disillusione è degenerata in rabbia. Hanno portato il mio Gesù fin sul ciglio del burrone, con intenzioni omicide. Ma egli ha girato lo sguardo verso di loro. I suoi occhi denotavano incredulità e delusione per la loro durezza di cuore, misericordia e compassione per la loro chiusa ignoranza di fronte alla salvezza annunciata. E con una autorevolezza inaspettata e incontrastabile si è aperto cammino in mezzo a loro, inesorabilmente, come una fiaccola nelle tenebre, come la Parola di Dio in noi, spada a doppio taglio che arriva fino alla nostra più intima e buia interiorità. Si è trattato forse della vera azione eccezionale compiuta da lui quel giorno.

Dopo di allora, Gesù è tornato a Cafarnao e lì ha stabilito la sua patria. Io l'ho seguito. A Nazareth ero ormai una presenza scomoda, e per di più sentivo che dovevo rimanergli vicino, come madre e discepola. Avevamo bisogno entrambi di questa rinnovata comunione. Al contempo, mi sono ritrovata madre di una nuova famiglia, quella dei suoi seguaci, in un vincolo che non sarebbe più venuto meno.

Alla fine della sua storia terrena, avrei ancora una volta assistito a una vicenda simile: il mio Gesù trasportato verso una altura, tra spintoni e insulti, da una folla che pochi giorni prima lo aveva acclamato, per essere ucciso appeso a una croce. Anche là avrei incrociato di nuovo i suoi occhi increduli di fronte a tanta chiusura e malvagità, e risplendenti di misericordia verso tale ignoranza circa la sua persona. Le sue ultime parole furono di perdono. La sua ultima azione, più che eccezionale, l'essersi aperto cammino attraverso il buio della morte, inesorabilmente, con la luce della sua risurrezione. E aver spalancato definitivamente le porte alla vita in Dio, eterna, per tutti noi.

 

domenica 23 gennaio 2022

Teofilo (Lc. 1, 1-4)

 Il Vangelo da dentro

Mi chiamo Teofilo. Nome che significa “amico di Dio”, nella doppia accezione, soggettiva e oggettiva, del complemento di specificazione: Dio che mi considera suo amico, e io che mi sforzo di esserlo. Sono proprio quel Teofilo a cui Luca ha dedicato le sue due opere: il Vangelo e gli Atti degli Apostoli.

So che alcuni pensano a una finzione letteraria dell’autore. Un nome fittizio, un personaggio inventato, per indicare che si diventa e si è davvero amici di Dio nella misura in cui si conosce Gesù attraverso il Vangelo, si conforma a Lui tutta la propria vita, e ci si sforza di testimoniare e diffondere il suo messaggio di salvezza, in comunione con tutta la Chiesa, così come hanno fatto gli Apostoli e viene narrato negli Atti.

Il fatto è che io esisto per davvero. Sono amico di Dio, ma anche di Luca. Condividiamo la stessa comunità, formata da gente di cultura greca convertitasi al cristianesimo. E queste due opere sono nate dal bisogno di conservare memoria dell’annuncio cristiano e della missione della Chiesa, visto che i testimoni oculari andavano via via scomparendo, per morte naturale o per aver subìto il martirio. L’annuncio poi esisteva per lo più in forma orale, salvo alcune raccolte scritte in ordine sparso. Occorreva mettere per iscritto tutto quanto, magari in modo ordinato, perché rimanesse a perpetua memoria e si potesse sempre attingere a questa fonte di grazia e di salvezza.

Un lavoro, in verità, già portato a termine, con grande gioia e profitto spirituale per le loro rispettive comunità, da Matteo, per ebrei convertitisi al cristianesimo, e da Marco, per cristiani di cultura latina. Così ci è sembrato opportuno che un lavoro simile lo facessimo anche noi per la nostra comunità di lingua e cultura greca. In questo modo avremmo abbracciato i cristiani di tutte le provenienze culturali, e il messaggio di Gesù avrebbe assunto una dimensione direi universale.

Senza alcun problema, anzi con entusiasmo, tutti hanno accettato la mia proposta di incaricare Luca della redazione dell’opera, sia per la sua nota preparazione culturale, che per le indiscusse qualità letterarie e oratorie. Possiede inoltre uno spiccato senso artistico, dilettandosi con successo nella pittura. Ed essendo medico, non gli manca di certo la capacità critica di analizzare le tradizioni orali e scritte, già numerose, e di gettarsi in ulteriori indagini, al fine di arricchire il “nostro” vangelo con eventuale materiale inedito. Questo per poter conoscere ancora di più Gesù e innamorarci maggiormente di Lui; per rafforzare la nostra fede; e infine renderci conto della solidità degli insegnamenti ricevuti.

Una fiducia che è stata oltremodo ripagata. Aver scelto lui è stata una vera e propria ispirazione dello Spirito. Spinto dalla sua “curiosità scientifica”, Luca non si è accontentato di riportare quanto già esisteva nei due Vangeli succitati, ma, da vero autore, ha spulciato tra le tradizioni della nostra comunità, scovandone alcune molto particolari e proprie. Altro materiale lo ha trovato visitando varie comunità cristiane.

Si sono così potute conservare e tramandare bellissime pagine che altrimenti sarebbero forse rimaste sconosciute: le parabole del buon samaritano, del figliol prodigo, dell’amministratore infedele, ecc.; l’episodio di Zaccheo, e altro ancora. La stessa figura di Gesù è caratterizzata da un infaticabile e incessante sentimento di misericordia. È un vangelo che ispira tenerezza, desiderio di bene e necessità di perdono, guardando alla bontà di Gesù, alla sua accoglienza verso i peccatori, e alla sua attenzione verso ogni categoria di poveri e bisognosi. Luca mette anche in maggiore risalto, rispetto a Marco e Matteo, la gioia cristiana, che scaturisce dalla fede nella presenza viva di Cristo, “Dio con noi”; e l’importanza della preghiera, sull’esempio di Gesù in dialogo continuo col Padre.    

Nella sua ricerca, inoltre, si è voluto spingere fino ad Efeso per parlare con Maria, la madre di Gesù. Da questo ultimo incontro sono scaturiti i primi due capitoli del Vangelo, che narrano della nascita e infanzia di Gesù, e alcune delle frasi pronunciate da suo figlio in croce, oltre il grido riportato nei due vangeli già esistenti. Conosciamo così le parole di misericordia e di perdono verso coloro che lo stavano crocifiggendo, il dialogo con uno dei due ladroni crocifissi con Lui, il suo affidarsi finale al Padre dei cieli.

Ne è venuta fuori una narrazione che ha entusiasmato tutta la comunità. La lettura del Vangelo scritto dal nostro Luca ha aiutato noi, e sono sicuro aiuterà ogni lettore futuro, a sentirsi “amico di Dio”, amato profondamente da Lui nel Figlio Gesù, e a voler ricercare la non facile, ma sicura felicità, promessa da Gesù a chi si sforza di vivere da “amico di Dio”.

fra Matteo

 

domenica 16 gennaio 2022

Dal panico alla festa (Gv. 2, 1-12)

 Il Vangelo da dentro

Incredulità. Sbigottimento. Panico. I termini che i nostri genitori usano quando ci raccontano di quel giorno speciale delle loro nozze. Cambia a volte l’ordine dei termini (oggi usereste quei simpatici ed espressivi emoticon per ognuna di queste espressioni), ma non i sentimenti che hanno provato quando il maestro di tavola, ossia l’incaricato dell’organizzazione della festa, si è avvicinato e ha sibilato ai loro orecchi che il vino si era esaurito.

Ancora oggi non si spiegano come fosse potuto succedere. Eppure non avevano lesinato sui soldi quando si era trattato di progettare e organizzare il tutto. Anzi, erano praticamente rimasti al verde. Volevano che quel giorno fosse indimenticabile, il giusto coronamento della loro storia d’amore e del loro tempo di fidanzamento. E il vino doveva essere abbondante, come la loro gioia, a supporto della festa di tutti.

Cosa fare?!? Non era solo questione di soldi, benché questi fossero indispensabili. Dove trovare tanto vino per tutta quella gente, quando alla fine dei festeggiamenti previsti mancava ancora del tempo e le cantine del paese non avevano tanta disponibilità?!? Si guardavano tra di loro, persi in occhi prossimi a lacrime di sconcerto, rabbia e delusione. Poi volgevano lo sguardo agli invitati, ignari del loro personale dramma, presi invece dalla festa nuziale, tra canti, danze e goliardie. Cosa avrebbero potuto dire? Come giustificare l’accaduto?

Mentre si stava consumando quel dramma familiare, è arrivato di corsa un servitore, con una brocca piena di… qualcosa, forse vino, ma preso da non si sa dove. Appena il direttore del banchetto ebbe assaggiato, scoppiò a ridere, pensando a uno scherzo da parte degli sposi, e si lanciò in un elogio per la bontà di questo nettare d’uva, di gran lunga migliore di quello servito fino ad allora. La festa poteva continuare, con ancora maggiore allegria.

Perplessità. Meraviglia. Stupore. I nostri genitori erano ignari di tutto. Non sapevano cosa fosse successo e chiesero spiegazioni ai servitori. Essi riferirono loro i fatti. Venuto effettivamente a mancare il vino, non sapevano cosa fare. A quel punto Maria, parente arrivata dalla vicina Nazareth e madre di Gesù, invitato anche lui insieme ai suoi discepoli, che lo consideravano un Rabbì, anche se non aveva i “titoli” per esserlo (aveva da un po’ lasciato il suo lavoro e la sua bottega per iniziare a predicare in tutta la Galilea), si è accorta del problema, probabilmente favorita dal fatto che il gruppo, pur essendo arrivati tra i primi, aveva scelto di occupare gli ultimi posti, quelli vicini alle cucine. Consultatasi con suo figlio, li avevano sentiti parlare di una certa “ora”, se fosse arrivata o meno. In seguito lei, con voce decisa e dolce a un tempo, aveva invitato i servitori a fare tutto ciò che suo figlio avesse loro indicato. Gesù comandò, con autorità e tenerezza insieme, di riempire di acqua, fino all’orlo, le sei anfore per le abluzioni (circa 600 litri!!), di attingere una brocca e portarne al maestro di tavola. Pur consapevoli dell’assurdo di entrambe le richieste, non avevano potuto fare a meno di obbedire; una forza interiore li aveva spinti ad avere fiducia in quelle due persone. Il resto era davanti a loro.

Naturalmente la festa poté continuare. Gli invitati non si erano resi conto di nulla. I nostri genitori, con gli occhi pieni di lacrime per la gioia e la gratitudine, pur in mezzo a quella allegra baldoria, riuscirono a scorgere il sorriso di compiacenza di Maria e Gesù. Da allora non hanno più dimenticato quei visi. E quella esperienza, quel miracolo frutto dell’intervento di Gesù e Maria, e della fiducia in loro dei servitori, ha segnato per sempre la loro vita.

Spesso ritornano con la memoria a quel giorno e a quei fatti. E non si stancano di raccontarceli. Quando poi si affaccia qualche sofferenza o difficoltà, oppure cala qualche ombra di stanchezza e aridità sul loro amore, ricorrono a un metodo molto proprio per uscirne fuori: riempiono due bicchieri di acqua fino all’orlo, fanno memoria di quel giorno, ripensano ai volti di Gesù e Maria, e brindano, guardandosi negli occhi, come allora. E si ripete il miracolo. Insieme a una commozione per lo più piena di lacrime, recuperano la gratitudine a Dio, ravvivano l’amore e la gioia, rinvigoriscono la complicità e la solidarietà.

Noi figli non ci stanchiamo mai di ascoltare quel racconto così importante, fondamentale per la loro vita. Ci basta vederli riempire di acqua i bicchieri, per essere invasi e contagiati da un rinnovato entusiasmo, che, sappiamo già, avvolgerà tutta la famiglia. È ormai una certezza, frutto di ripetute esperienze.

I miei hanno rivisto Gesù solo una volta, prima che lo giudicassero come un malfattore e lo mettessero a morte su una croce. È successo poco tempo dopo questi fatti, quando è passato da Cana e ha guarito il figlio di un funzionario del re. Ma i suoi discepoli attestano che egli è risorto, che è figlio di Dio e che è vivo, sempre presente tra noi. Una presenza che rinnova la pace e la gioia nei cuori di chi ci crede e la accoglie. Proprio come quel giorno a Cana.

                                                                                                                                fra Matteo

domenica 9 gennaio 2022

È Lui! (Lc. 3, 15-22)

Il Vangelo da dentro


Un brivido, appena ho scorto la sua figura in mezzo alla folla dei peccatori in attesa di immergersi nel Giordano. Il cuore è balzato in gola per l’emozione. Un salto, come il sussulto di gioia la prima volta che ci siamo incontrati. Sentiti allora, più che visti. Lui nel grembo di sua madre, io in quello della mia.

Dopo ci sono state poche altre possibilità di incontro. Alcune volte, in occasione delle feste di pellegrinaggio alla vicina Gerusalemme, quando lui e i suoi sono passati da casa nostra, provenienti dal loro lontano villaggio di Nazareth. Ma da parecchio tempo ci eravamo persi di vista. Io chiamato a una vocazione eremitica e profetica nel deserto di Giuda; lui impegnato nel lavoro di falegname insieme a suo padre, e intento a portare avanti la bottega dopo la morte di Giuseppe.

Non avrei lontanamente immaginato che la sua vista potesse farmi un simile effetto, uguale a quel ricordo ormai perso nel tempo, nascosto nel grembo e nella memoria delle nostre madri. Ho avuto, subito, la netta sensazione che fosse lui l’Atteso. Lo Spirito di Dio me lo ha sussurrato, gridato dentro. I cieli aperti e la voce sono solo serviti a confermare ciò che già avevo intuito, già avevo scoperto, già sapevo.

Poi si è immerso nel Giordano, come tutti, con tutti. Agnello che prende su di sé il peccato del mondo. Gesù, novello Giosuè, che attraverso le acque del Giordano introduce gli uomini alla terra promessa, all’amore e alla comunione con il Padre. La sua presenza ha santificato quelle acque, quelle persone. Pieno di gioia e di Spirito ho capito di aver esaurito il mio compito di profeta precursore dell’Atteso; era giunto per me il tempo anelato di passare ad essere discepolo del Messia e testimone della sua Presenza.

Ora, immerso in questa cella buia e umida, mi chiedo a volte se non ho preso un abbaglio, o se non ho capito del tutto il messaggio di Dio. Gesù è così diverso da me, dalle mie attese e aspettative. Eppure mi riferiscono ciò che dice e fa, e ne rimango affascinato e perplesso a un tempo. Perplesso e affascinato. Come succede a Erode Antipa quando mi chiama per dialogare.

Voglio umilmente accettare che i pensieri di Dio non sono i nostri, e le sue vie sono differenti dalle nostre. Sento dentro di me che Gesù è Altro, è tanto di più. L’Atteso. E questa cella è diventata il mio tempio, luogo di dialoghi di amore con il mio Signore. In essa, nella mia storia mi sento “immerso”, come un tempo aiutavo la gente a immergersi nelle acque del Giordano. Il cielo si apre per me e ascolto la voce del Padre che ripete a me e per me: “Tu sei mio figlio, figlio mio!! Tu sei l’amato. Amato da me in modo unico”, e rinasco rinnovato nella fede e nella speranza.

Mi hanno riferito che Erodiade vorrebbe la mia testa tagliata, per non darle più fastidio con le mie affermazioni. Ebbene, se devo perdere la testa, sarà per aver testimoniato colui che ormai è per me via, verità e vita, e non per averla smarrita dietro cammini fuorvianti, falsità e non senso.

 fra Matteo

 

giovedì 6 gennaio 2022

Cammino a casa (Mt. 2, 1-12)

 Il Vangelo da dentro

Casa, finalmente!! Ci sono arrivato, non per il cammino solito, quello conosciuto. Un angelo ha detto a me e ai miei amici di tornarci per un’altra strada, di evitare la rabbia di Erode. Abbiamo forse salvato così le nostre vite.

Non è stato facile battere sentieri nuovi, cambiare panorami. Non c’era più la stella a guidare i nostri passi. Siamo stati sostenuti e condotti dal ricordo di quell’incontro a Betlemme, di quel bambino dalla cui tenerezza siamo stati avvolti, di sua madre che amorevolmente ce lo ha messo nelle braccia, di suo padre sereno, sorridente e accogliente. Il sogno dell’angelo ci ha salvati da una probabile morte fisica. Questa famiglia sicuramente ci ha sottratti dalla morte di una vita senza senso o non piena. Un incontro che ci ha resi immensamente più ricchi, dopo aver deposto ai piedi del bambino le nostre improbabili ricchezze. Un incontro che ha cambiato le nostre prospettive e visioni.

Ero partito, insieme ai miei due amici, dopo aver visto il segno della stella nel cielo. Noi, abituati a percorrere i sentieri degli astri con gli occhi, gli strumenti e la nostra intelligenza, stando fermi nei nostri punti di osservazione, ci siamo dovuti mettere in cammino. Lo sguardo sempre rivolto alla stella, ma ormai nel flusso di una umanità nomade lungo le vie dell’impero romano. Mercanti, schiavi, pastori, migranti, tribù itineranti: lungo le vie del commercio una umanità sconosciuta, mai o poco incontrata prima. Esperienza completamente nuova per noi. Piacevolmente obbligati a passare da uno sguardo astratto – quello rivolto agli “astri” – sulla vita, al coinvolgimento nelle storie e nei volti incrociati lungo la strada. Non più e non tanto scrutatori di congiunzioni astrali, ma piegati su realtà vive e persone concrete. Discepoli di una sapienza non imparata solo sui libri, ma a contatto con la vita e i suoi innumerevoli sapori. Penso adesso che l’incontro con tanta umanità sia stata la necessaria e indispensabile preparazione per quello con il Dio fatto Uomo.  

Poi Damasco, città di snodo, metropoli di popoli, culture e condizioni sociali differenti. Di là a Gerusalemme, città invece omogenea, a quel tempo poco interessata a leggere i segni del tempo e a farsi coinvolgere dalle loro Scritture. Pochi chilometri ancora ed ecco Betlemme. Il resto è noto. Una famiglia e il loro bambino. La stella ha lasciato il posto a quell’umile dimora. Per entrarvi siamo dovuti scendere dalle nostre superbe cavalcature. Prostrati abbiamo adorato quel bambino e quella scena familiare. In verità, prostrarsi era anche l’unico modo per incontrare gli occhi del bambino e farci abbracciare da lui. Esperienza di luce e di calore umano impossibili da spiegare. Scomparsa la stella, tutto là dentro brillava di una intensità mai provata prima, e che ancora mi accompagna.

Ora la mia casa la vivo in modo completamente differente. Vi è più serenità e gioia. Anche la mia “professione” non mi astrae dagli affetti e dalle relazioni umane. Quel cammino e quell’incontro mi hanno cambiato la vita. O, chissà, me l’hanno fatta semplicemente ritrovare.