Il Vangelo da dentro
Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti (Lc 6, 17-19).
Così Luca descrive nel suo Vangelo la provenienza della moltitudine di
gente presente in quella pianura. Non lo si può certo accusare di
discriminazione se non parla di me. Nessuno si accorse della mia presenza tra
tutte quelle persone, molte delle quali provenienti dal litorale libanese,
perciò stranieri, e io più di loro. Mi presentai in incognito, io, ufficiale
romano di stanza a Cesarea sul mare, situata più a sud di Tiro e Sidone e sede
del governatore inviato da Roma.
Sono sempre stato uno spirito inquieto, in ricerca. Da giovane ho provato
ad essere felice vivendo a pieno i piaceri della vita e l’euforia delle
vittorie militari. Ma, passato il momento, mi ritrovavo vuoto di cuore e di
mente. Più tardi ho inseguito la felicità nella vita regolata dal diritto, di
cui a Roma siamo maestri, e nella filosofia dei greci. La mia mente ne ha
tratto ricchezza, ma il cuore si è mantenuto nella sua aridità. Una felicità a
metà. Durante una mia lunga permanenza a Roma sono venuto a contatto con la
cultura e la religione degli ebrei, che vivono nel loro bel quartiere sulle
sponde del Tevere, e con alcuni di loro ho stretto una sincera amicizia. Mi ha
affascinato il loro libro sacro, la Bibbia. Ho letto e riletto le sue pagine.
Mi piace questo loro Dio, addirittura unico, senza un olimpo di dei al suo
fianco, che sceglie un popolo tra i più piccoli del tempo per farne il suo
popolo, in favore del quale interviene sempre con misericordia, malgrado le
loro ribellioni, la loro testardaggine e il cuore indurito.
Sentivo però che mi mancava ancora qualcosa. E così, quando si è presentata
l’occasione di poter venire a prestare servizio in Palestina, l’ho presa al
volo, senza pensarci su due volte. Avevo desiderio e necessità di conoscere più
da vicino questa gente e la loro religione. Non me ne sono pentito; non ho
trovato ancora però quel senso pieno di vita che vado cercando da sempre. Mi
manca comunque qualcosa; il che mi rimette continuamente in cammino, pellegrino
sui sentieri che conducono alla pace e alla felicità.
Come mai sono arrivato fin là, a quella pianura della Galilea? Mi ci ha
portato la curiosità di voler conoscere Gesù di Nazareth, maestro del quale si
parlava diffusamente da qualche tempo a questa parte, la cui fama aveva
valicato i confini della regione e della nazione. Chissà che non avesse
qualcosa da dire alla mia ricerca. Ho cercato il suo villaggio di provenienza
sulle carte geografiche, ma non l’ho trovato. Mi hanno riferito che è talmente
piccolo e insignificante che hanno ritenuto di non riportarlo sulle mappe della
Galilea. Eppure questo maestro, celebrato da tutti, vi aveva passato trenta
anni della sua vita, nascosto come il suo villaggio, fuori da coordinate di
riferimento, prima di iniziare a predicare pubblicamente la vicinanza del Regno
di Dio e la conversione. Insomma, ero venuto per ascoltarlo, come molti. Tanti
altri si capiva che erano lì per mettergli davanti i propri guai fisici o
spirituali, confidando nelle sue capacità di guarigione e salvezza.
Gesù, sceso dal monte, prese allora la parola, annunciando di voler parlare
dell’essere felici. Parve avermi letto nel pensiero. Mi aspettavo un bel
trattato sulla felicità, alla maniera dei miei amati filosofi; invece ha sconvolto
l’uditorio dichiarando beate alcune categorie di persone che noi avremmo
definito minimo “sfortunate”: i poveri, chi ha fame, chi piange e chi è
perseguitato a causa del suo nome. Perché? Non per una condizione di vita che è
dovere di tutti aiutare a superare; ma per la loro necessità di doversi aprire
alla relazione, con Dio e con i fratelli, trovandosi nella condizione di non
bastare a sé stessi, e quindi di non correre il pericolo della
autoreferenzialità escludente e discriminante, che, al contrario, porta
pericoli e guai per tutti. Sono infatti le relazioni che odorano di vera
spiritualità e umanità a renderci felici.
È poi passato a parlare di amore, raggiungendo vette a prima vista
impossibili da scalare. Amare addirittura i nemici… Rispondere al male con il
bene… Essere misericordiosi alla misura di Dio, non tanto “come”, ma “con” Lui
e “perché” Lui lo è con noi (un dio così non esiste nell’olimpo dei nostri
dei…). Concetti straordinariamente affascinanti, ma pericolosi per la politica
e gli equilibri internazionali dell’Impero Romano, che vedrebbe certamente la
fine se si affermassero. E infatti si è cercato di inchiodarli con lui su una
croce, non riuscendo però a farli morire con lui. Personalmente il nemico ho
imparato a rispettarlo, ma amarlo è troppo!! Eppure, sento che sarebbe giusto e
bello se fossimo capaci di tanto, e che il mondo sarebbe senz’altro più
vivibile se aperto al bene gratuito e disinteressato.
Sono tornato a Cesarea, affascinato e sconvolto da quella esperienza e da
quelle parole. Fascino e turbamento che mi sono portato dietro come bagaglio
prezioso, pur nella consapevolezza della difficoltà a vivere secondo quei
criteri. Più di ogni altra cosa, mi ha sempre accompagnato l’incontro con Gesù.
A un certo punto ho incrociato il suo sguardo, e mi è parso che lui stesse
cercando il mio, in mezzo alla gran folla che lo circondava. Occhi che
brillavano di quell’amore e quella misericordia che stava proponendo a tutti.
Non ho più incontrato un maestro altrettanto credibile, nel quale si
identificassero messaggio e testimonianza di vita, parole e amore incarnato.
Tuttavia, il ricordo di quella esperienza e di quello sguardo non hanno mai
smesso di accompagnarmi e di darmi il coraggio di andare avanti nella mia
personale ricerca di una vita migliore e di un tempo più pieno.
fra Matteo
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