lunedì 16 agosto 2010

Cochabamba - Sucre - Potosí






Scrivo sull’aereo in viaggio verso Roma. Avrei voluto vedere i film che trasmettono durante il volo e che aspetto per cercare di non dormire, così assorbo meglio il jet lag quando arrivo in Italia. Infatti, dopo un giorno e mezzo senza dormire, crollo a sera e mi ritrovo già nel ritmo europeo. Le volte precedenti ha funzionato. Stavolta c’è un inghippo: non funzionano le cuffie in tutto l’aereo, per cui decido di mantenermi sveglio scrivendo della mia permanenza in Bolivia. Qualcosa che integri il post precedente sul Congresso con racconti di taglio “turistico”.


Cochabamba – La città è posta a 2.500 mt d’altezza, circondata da montagne. Il cielo appare tesissimo per gran parte dell’anno, proiettando una luce particolare sulle cose e la natura. Il clima è molto secco e l’escursione termica notevole. Si passa dai 4-5 gradi della notte e mattino presto, ai 28-30 quando splende il sole. La pelle ne risente: le labbra si bruciano, le dita si spaccano e il naso spesso, al risveglio, sanguina. Questo almeno l’ho sperimentato io.
Il popolo boliviano vive molto ancorato alle sue radici e tradizioni, anche perché costituito, per molta parte da etnie indigene. I due gruppi principali sono i quechua e aymara, ciascuno con il suo idioma. Tarata, dove abbiamo tenuto il congresso, parla e vive quechua. Due cose mi hanno colpito.
Venerdì 16 luglio, davanti alla chiesa dei frati c’era una “veglia” in onore della Vergine del Carmelo, con gruppo mariachi e alcune persone del popolo ad ascoltare. Durante l’atto si sono distribuiti panini a tutti i presenti; poi, in alcuni secchi di plastica, con delle “coppe” comuni per attingere e bere, si è condivisa la “chicha” (una bevanda di mais fermentato). Prima e dopo aver bevuto, ho visto che tutti spargevano un po’ del liquido al suolo, e non capivo se era per igiene o che. I frati mi hanno spiegato che si tratta di un rituale antico per ringraziare la “pacha mama”, la madre terra, che genera vita e ci nutre.
Il 25, a Cochabamba, ho assistito a una danza, il “tinku”. In occasione delle feste religiose vari gruppi etnico-folkloristici ballano in processione e davanti alla chiesa in onore del santo. Il tinku è una danza tribale per propiziare la fertilità della terra. Mi hanno spiegato che originariamente comprendeva il sacrificio di alcuni animali, il cui sangue serviva per fecondare il terreno. Gli spagnoli, al loro arrivo, per puro divertimento, obbligarono gli autoctoni a lottare tra loro, bagnando col loro stesso sangue la terra. La lotta doveva terminare con un morto, sacrificato alla madre terra. Le donne incitano gli uomini alla lotta. Oggi tutto rivive in una rappresentazione, all’interno di questa danza lunga e spettacolare, cruda e anarchica. I colori dei vestiti, tipicamente andini, sono vivaci e molto belli.
Dopo il congresso, insieme al mio guardiano fray José Luis, e Alvaro, frate uruguaiano, siamo andati per due giorni di turismo a Sucre e Potosì.


Sucre – Stessa altitudine e clima di Cochabamba, è una città molto bella, con chiese solenni e palazzi sontuosi, dell’età coloniale. Tutti dipinti di bianco, che le hanno valso il titolo di “città bianca”. Molto signorile, per il centro storico ben curato, è la capitale culturale della Bolivia per le sue università. La nostra chiesa di S. Francesco è bellissima. La più antica della città, conserva nel campanile la campana che risuonò insieme al grido di “libertà” in America Latina, duecento anni fa. L’ospitalità dei frati è stata squisita. Unico inconveniente personale: la seconda notte, l’ultima, di ritorno da Potosì, ho vomitato tutto il possibile, probabilmente effetti ritardati e collaterali dell’altitudine.
Ho visto che la Bolivia vive, quasi in carta carbone, lo stesso processo politico del Venezuela, però le città sono molto più sicure e si può passeggiare fino a sera tardi.




Potosì – La città della “plata” (argento). Dominata dal “Cerro rico”, perforato da gallerie minerarie, fu la capitale economica di tutta l’America Latina durante il periodo aureo dell’estrazione del prezioso metallo. Affascinante, magica nelle sue strette vie coloniali; assurdamente uguale e sciatta nel quartiere dei minatori. Si trova a 4.000 metri di altitudine e ci si arriva attraverso una suggestiva via tra le montagne e l’altipiano boliviano. Il luogo non è favorevole a nessun insediamento umano; solo l’argento, un tempo abbondantissimo, giustifica la sua fondazione da parte degli spagnoli.
Degni di visita il Convento delle Carmelitane e la “Casa de la moneda”, simboli dell’auge spirituale ed economico. Nel suo momento di maggiore splendore, Potosì arrivò a contare 160.000 abitanti, quando Madrid e Parigi ne contavano circa 60.000. Si organizzano visite alle miniere, ancora attive. Mi sono scontrato con uno dei mestieri più duri, pericolosi e assurdi. L’estrazione dei metalli potrebbe avere un suo senso; ma giustificare la morte di migliaia di indigeni nella storia, e di uomini e animali in generale solo perché l’uomo ha deciso che alcuni metalli sono “nobili” mi pare diabolico. Per lavorare duro a certe altitudini, ma anche per vincere semplicemente gli effetti dei 4.000 mt, si usa masticare foglie di coca. È tipico vedere i minatori con una guancia rigonfia per la poltiglia di foglie di coca che mantengono in bocca, succhiandola e masticandola. Il tutto accompagnato da sorsi di acquavite.
Siamo stati ospiti dei frati minori, nel bellissimo convento di S. Francesco, monumentale. Solo due frati, tra cui un italiano di 75 anni circa. Il freddo intenso, prima che salga il sole, e l’altura, pare scoraggino altri a volerci andare.
Ritorno dalla Bolivia contento per l’esperienza turistica e culturale. Per 11 giorni ho lavorato sodo nella preparazione e svolgimento del Congresso, essendo moderatore unico e membro della Commissione di sintesi quotidiana e finale. Bello e arricchente ascoltare gli interventi e scambiare opinioni, a livello formale e nei momenti fuori dell’aula. Il clima fraterno è stato splendido. Tre giorni li ho potuti vivere da turista, visitando luoghi suggestivi e venendo a contatto con la cultura boliviana, molto più autoctona e legata alle tradizioni che non la venezuelana.

lunedì 2 agosto 2010

Congreso de los frailes de AL en Tarata (Bolivia)

En los días 19-23 de julio del 2010, después de 64 años de la llegada de los Frailes Menores Conventuales en América Latina, a raíz de los 800 años de la aprobación oral de la Forma de Vida de Francisco de Asís, nos hemos encontrado en el histórico convento de Tarata (Bolivia), perteneciente a los Frailes Menores, para realizar un congreso con el siguiente tema: “Nuestra identidad y presencia conventual en Latino América, a la luz del VIII Centenario de las orígenes del carisma franciscano”. Por primera vez la Orden, presente en AL, se ha reunido en una manera tan plenaria para llevar a cabo un evento conmemorativo y reflexivo en común. Éramos 43 frailes representantes de las diversas instancias y presencias en nuestro continente: ministros, formadores, formandos e invitados. Organizado por el ministerio de reflexión “Mirefalc”, ha sido una ocasión para compartir la riqueza de la diversidad franciscana y conventual en este continente, en clima de apertura, interpelación mutua, cuestionamiento, escucha de la Palabra, alegría fraterna.



Uno por día se han desarrollado los siguientes temas: Formación para la misión; Memoria de los mártires; Eclesiología y aportes actuales. El mismo lugar, escogido por su capacidad de hospedar ese número de frailes, ha contribuido providencialmente al desarrollo de los temas. En efecto, el convento franciscano de Tarata, fundado en el 1792, formaba misioneros para los pueblos indígenas de Bolivia, ejemplo de diálogo y enculturación. El convento está ubicado el la parte alta del pueblo, no para dominarlo sino para ser punto de referencia evangélico. Además, Tarata está conformado por gente de etnia quechua, con tradiciones, vestidos e idioma propios. El convento es lugar de encuentro, diálogo intercultural, acogida y anuncio.



Somos invitados hoy a formarnos a la escucha del Espíritu Santo, para responder eficazmente a los desafíos actuales en el campo del anuncio del evangelio, sin repetir pasivamente esquemas pasados. El carisma conventual fraterno nos impulsa a ser hombres de diálogo con las diversas culturas que conforman nuestra AL, artistas de armonía entre belleza, verdad y bien, en una sociedad siempre más pluricultural. La opción preferencial para los pobres, en todas sus matices, sigue siendo propuesta privilegiada de la Iglesia latinoamericana, sobretodo para los seguidores de Francisco de Asís. Seremos significativos en cuanto capaces de narrar a Dios con nuestra vida y vivencia. Es como un retorno a la predicación penitencial franciscana. En el campo de la formación, educarnos a una mirada evangélicamente crítica hacia el mundo, llena a la vez de pasión por Dios y el hombre, el de hoy día, a menudo fragmentado y “líquido”.



La misión requiere radicalidad. Los mártires conventuales de AL, de quienes hemos hecho memoria por primera vez en conjunto y en una ocasión tan importante, nos impulsan a dar nuestras vidas por la causa del Reino, viviendo en lo cotidiano un estilo de vida cercano al pueblo, a la gente pobre y sencilla, hasta las últimas consecuencias. Estamos invitados a: descolonizar las mentes, el conocimiento, y recuperar la memoria histórica; fortalecer espacios y relaciones interculturales; ser “nómadas” de la vida, evitando aislamientos y comodidades; vivir y transmitir la comunión con la Trinidad; discernir los signos de los tiempos a la luz del Espíritu Santo y la Palabra.

Finalmente, hicimos memoria histórica y relectura del desarrollo de nuestras presencias, concluyendo que estamos desafiados a repensar nuestra fidelidad al carisma en nuevos contextos eclesiales, sociales y culturales. La parroquia sigue siendo la manera más común de nuestras presencias en AL. Queremos afirmar su validez; sin embargo hay que buscar siempre la modalidad franciscana conventual de llevar a cabo esta pastoral, abiertos además al discernimiento sapiencial sobre otras formas de presencia y servicio. Individuamos en la minoridad y la bondad – modalidades de Dios para comunicar con el hombre – la manera propia franciscana frente a un mundo caracterizado por una desafiante pluralidad.



En conclusión, el congreso ha sido un verdadero don de Dios. Muy apreciada su metodología de alternar ponencias, testimonios de vida, trabajos grupales e intercambios en asamblea. La riqueza experimentada en las celebraciones, en el intercambio de experiencias, en la comunicación verbal y corpórea de contenidos y retos, en el clima de fraternidad, esperemos pueda transmitirse a todos los frailes y tener una recepción positiva en nuestras presencias conventuales de AL, para que sean siempre más significativas y proféticas.