Stavo seguendo
Gesù non da molto tempo. Mi incuriosiva il movimento che si era creato attorno
alla sua persona, pur essendo spesso perplesso di fronte ai suoi atteggiamenti
e insegnamenti, nuovi, originali, quasi “eretici”. Qualche giorno fa sono stato
spettatore di un fatto insolito: la sua decisione di recarsi a Gerusalemme per
la Pasqua. Niente di strano, direte voi, visto che un pio ebreo sente la gioia
di salire in pellegrinaggio alla città santa in occasione almeno di una delle
tre grandi feste: Pasqua, Pentecoste, Tabernacoli. Eppure, nel prendere quella
decisione il suo viso, di norma rilassato e sereno, si è come indurito, in una
sorta di forte determinazione, necessaria in quel frangente, specchio di una
personale lotta interiore.
Sapeva, e
sapevamo, che non sarebbe stato bene accolto dalle autorità della città e del
tempio. Ma sembrava spinto da una strana energia, da un fuoco dell’anima, che
non ammetteva ripensamenti e rifuggiva rilassamenti o ritardi. Aveva “fretta”. Fretta
di portare a termine qualcosa che era nella sua mente e nel suo cuore. Fretta
che si è evidenziata fin dai primi momenti, quando a due che volevano seguirlo
da discepoli, ma che sentivano di dover prima assolvere a dei doveri verso i
loro genitori e parenti, ha detto chiaramente che non c’era tempo da perdere, pur
trattandosi di cose prescritte dalla Legge o appartenenti a costumi e relazioni
umane. E quando subito dopo ha inviato in missione settantadue suoi discepoli,
ha raccomandato loro di non attardarsi lungo la strada, o in città e case che
non li accogliessero.
In questo
clima mi sono presentato io, dottore della Legge, per chiedergli cosa pensasse
circa la discussione delle scuole rabbiniche sul comandamento principale, che
racchiudesse in sé il nocciolo di tutta la Scrittura. Luca ha scritto nel suo
vangelo che l’ho fatto per metterlo alla prova. Cosa volevo provare? La sua
preparazione? La sua originalità? Il prendermi in considerazione, malgrado la
sua fretta e quel momento topico della sua esistenza? Forse un po’ di tutto
questo…
La prima risposta
è stata una domanda, che rimandava alle Scritture, alla maniera degli
insegnamenti rabbinici: “Che cosa sta scritto nella Legge?”. Insomma, niente di
nuovo. Ma la seconda domanda, immediatamente dopo, mi ha fatto barcollare: “Come
leggi?”. Quindi non è solo questione di contenuti, ma di atteggiamento di
fronte allo scritto. Il comandamento principale lo si scopre davvero usando intelletto
e cuore, teoria e vita. Naturalmente sulla teoria ero ben preparato, ma sulla
pratica ero confuso. Per questo la mia domanda sul prossimo, dalla quale è
scaturita la bellissima parabola del buon samaritano. In fondo l’umanità
dovrebbe essermi grata per aver motivato un insegnamento così profondo e alto.
La parabola
del buon samaritano è nota a tutti, compreso ogni suo risvolto sull’amore al
prossimo e sul farsi prossimo, da parte di Dio verso di noi, e nostro verso chi
è nel bisogno. Io l’ho sentita allora come una risposta alla mia vita, oltre
che alla mia domanda.
Io ero il
tale che scendeva da Gerusalemme a Gerico, dalla città santa alla città degli
uomini. La mia lettura della Legge senza il “come” del coinvolgimento del cuore,
era un allontanarsi da Dio e dalla sua casa. Una discesa che avrebbe potuto
comportare l’imprevisto del dubbio e delle certezze svanite; l’incontro con ferite
fisiche e spirituali, gli assalti da parte della vita reale, fino a lasciarmi
mezzo morto nella mia esperienza esistenziale, se fossi vissuto al freddo riparo
delle norme, senza il calore di una presenza amorevole e compassionevole,
ricevuta e donata. Perché senza amore ci si dissangua poco a poco, rimanendo
forse ancora in vita, ma mezzo morti, passivamente prostrati, incapaci di
vivere in pienezza.
Io ero il sacerdote
e il levita, attento a non sporcarmi le mani con le necessità degli altri, in
nome di una asettica purezza rituale e scritturistica, che sfocia in
atteggiamenti di indifferenza o diffidenza di fronte a chi potrebbe “disturbare”
la mia tranquillità o rubare tempo ai miei impegni “alti”, accomodato a una ritualità
senza carità e a una religiosità senza fede. E così ero anche un po’ brigante
assaltatore, o almeno complice passivo.
Con quella
parabola Gesù mi ha guarito; con il suo comportamento mi ha salvato. Egli,
definito “eretico” e “samaritano” dalle nostre autorità religiose. Pur vivendo
giorni di particolare tensione interiore; malgrado il suo voler giungere in
fretta alla meta, senza attardarsi, Gesù ha avuto tempo per me, ha preso a
cuore i miei dubbi. Si è fermato tutto il tempo necessario. Si è preso cura
della mia lontananza dalla verità. Ha ridonato vita alla mia religiosità ormai
esangue e irrimediabilmente vuota, allargando il mio cuore a una fraternità
senza barriere culturali, religiose o storiche. Ho scoperto il vero Dio nei
fratelli, e gli altri, tutti, fratelli in Dio. Mi sono ritrovato. Discepolo di
questo Maestro, a condividere, con lui e con gli altri, l’olio che guarisce e
il vino che allieta il cuore.
fra Matteo