Un anno e mezzo fa circa scrivevo, contento di aver conseguito la carta di identità venezuelana. Il che mi favoriva, come ho potuto constatare dopo, ai controlli nei frequenti posti di blocco del paese. Mi pareva anche il suggello a un sentirmi sempre più inserito in questa realtà. Mi mancava però ancora un documento, per poter stare del tutto tranquillo specie negli spostamenti in macchina, quando mi toccava guidare (e ultimamente ho dovuto percorrere tragitti lunghi): la patente. Non la chiedono quasi mai, e per quello ho potuto sempre guidare senza problemi; interessano di più i documenti di identità, come la carta e il passaporto, specie se si vive in zona di frontiera come il Táchira. Però potrebbero chiederla, la patente, specie in caso di incidente, e se non ce l’hai sono problemi. Così ora ce l’ho, addirittura di 4º livello: posso guidare addirittura piccoli camion, i cosiddetti “350”.
Parrebbe la quadratura del cerchio. Però, mi sono accorto che una certa nostalgia è sempre in agguato, canaglia, appena trova un varco per cui entrare. Magari non in modo lacerante, tuttavia è lì, e si ripresenta in varie forme, rendendo vero e sempre attuale quanto ho scritto e continuo a dire: qui sto bene, ma non posso dire che esperienze e persone e luoghi di Italia non mi manchino, a volte. Specie quando succede qualcosa – niente di particolare, quasi sempre banale – che fa affiorare il ricordo, nostalgico e grato, per il vissuto, e per Dio che ti ha donato vivere.
Parrebbe la quadratura del cerchio. Però, mi sono accorto che una certa nostalgia è sempre in agguato, canaglia, appena trova un varco per cui entrare. Magari non in modo lacerante, tuttavia è lì, e si ripresenta in varie forme, rendendo vero e sempre attuale quanto ho scritto e continuo a dire: qui sto bene, ma non posso dire che esperienze e persone e luoghi di Italia non mi manchino, a volte. Specie quando succede qualcosa – niente di particolare, quasi sempre banale – che fa affiorare il ricordo, nostalgico e grato, per il vissuto, e per Dio che ti ha donato vivere.
In questi ultimi due mesi, per esempio, il fatto di stare in realtà pastorali non seminaristiche, di poter condividere la realtà della gente, del campo e della città, mi ha fatto venire in mente i 18 anni tra Copertino e Gravina, nella pastorale “attiva”, e le tante persone con cui Dio ha arricchito il mio cammino. Forse quello che vivo ora è più gratuito; la pastorale “fuori” è più impegnativa nell’orario, ma certamente più gratificante, e forse anche per questo ne sento la mancanza di tanto in tanto.
Ieri, invece, dopo cena mi sono concesso un po’ di televisione (20.00-21.30 circa), sintonizzandomi su Rai International. Passavano un film ambientato in Puglia (nei titoli di coda ho potuto leggere Ostuni e Nardò), con Lino Banfi e altri attori, tutti con accento tipicamente barese. Niente di particolare nella trama; però la bellezza degli ambienti, la lingua e le danze dalle sonorità conosciute, la luce estiva dei paesaggi, mi hanno catturato e commosso, finché la campanella che annunciava Compieta mi ha richiamato al reale e all’oggi. Non la nostalgia lacerante, appunto, che non ti permette vivere e apprezzare quanto ti circonda; bensì la malinconia struggente dell’emigrante. Verrebbe facile applicarlo ai tanti migranti dei quali si discute in questi giorni in Italia, dimenticando che non sono oggetti ma persone, interiorità e sentimenti rivestiti di carne e necessità, storie e geografie “aggredite” da interne nostalgie ed esterni “respingimenti” di vario tipo.
Infine, ieri a mezzogiorno mi hanno annunciato di un signore, sui cinquanta, desideroso di confessarsi. Essendo l’unico sacerdote presente è toccato a me. E questi, mai visto prima, mi racconta della sua conversione recente. Ha in mano una rivista di Medjugorie, che dice averlo colpito molto. E mi parla della sua devozione a S. Michele e del gran desiderio, per aver letto in un articolo su questo, di recarsi alla magnifica “gruta de S. Miguel” nel sud Italia, per sperimentare la potenza e la vicinanza dell’arcangelo. Ha due amici italiani che gli hanno promesso andranno a pregare per lui nella Grotta. Immaginatevi la mia sorpresa a sentirlo, e la sua quando gli dico che sono di Monte Sant’Angelo, il “pueblo” dove di trova la Grotta. Gli prometto che pregherò per lui quando vado in vacanza. E qui una nuova consapevolezza: l’attaccamento a questo monte, poco apprezzato durante gli anni di vita lì, riscoperto dopo che ho dovuto lasciarlo. È certo che la lontananza spazio temporale falsa un poco la realtà, addolcendone il ricordo; però è strano come sempre, avvicinandomi al Gargano e a Monte, la memoria si tuffi nel cuore e viceversa. Non ho mai avuto difficoltà a sentirmi cittadino del mondo e ad abitare la geografia fisica e relazionale del momento; ma i tornanti verso Monte, nei miei arrivi, li ho sempre vissuti in silenzio; attanagliato dai contorni del paesaggio e dalla trasmissione di sensazioni occhio-stomaco; in un’ascesa verso parti profonde dell’essere e della memoria. Un pellegrinaggio insomma, al sacro monte, e alla sacralità della interiorità personale, ancora non del tutto esplorata e tante volte tradita; all’ancestro della vita-dono di Dio, anche se non luogo esclusivo dello sviluppo del dono nella storia, la mia. Se Dio è la roccia, Monte ne è per me l’espressione concreta, plastica. E la Grotta di S. Michele si rivela l’ombelico del mondo, dove scendi per nutrirti di abisso e ritrovarti.