Locaina del Niño Jesús (1 gennaio)
É legata a una tradizione molto antica, e di tipo familiare, nel senso che appartiene a una famiglia particolare, ma coinvolge tutto il paese. Si collega alla “locura” (=pazzia) – da cui “locaina” – che, secondo la tradizione, afferrò coloro che a Betlemme non diedero ospitalità alla Sacra Famiglia, soprattutto quando si resero conto che non avevano avuto la disponibilità per far nascere il Figlio di Dio, in casa propria. I membri della Locaina “impazziscono” il 24 di dicembre, e per una settimana parlano in modo strano ed esprimono concetti al rovescio, però compiendo opere buone, come visitare e onorare i defunti. Il giorno 1 di gennaio celebrano una messa per ringraziare Dio del recupero della ragione nella fede rinnovata, e per pregare per i loro defunti.
Nell’omelia ho parlato loro del concetto di “pazzia” biblica: Dio “pazzo” di amore per l’umanità e che annuncia concetti al rovescio rispetto alla mentalità umana (il primo, ultimo; il più grande, servo...); i santi, “pazzi” di amore per Dio e per gli uomini, sull’esempio e con il sostegno di Gesú.
Dopo la messa si svolge come una processione e ai 4 angoli del paese vi è una cerimonia dei membri della locaina, vestiti con la loro bizzarra uniforme, che serve a “spazzare” l’influenza del male dagli abitanti di Pueblo Llano.
La festa di S. Benito (2 gennaio)
È una festa davvero popolare, non legata a nessuna famiglia e, per questo, fortemente partecipata. La figura di questo santo francescano negro di Sicilia è molto nota in America Latina, quanto sconosciuta in Italia (solo una bella canzone degli Inti Illimani, dedicata a questa festa, è un lontano ricordo di anni giovanili e di lotte studentesche in favore della democrazia in Cile). Probabilmente si usò il fatto che fosse negro e figlio di schiavi per presentare una figura di santo, nella evangelizzazione realizzata soprattutto dai francescani, con cui potessero identificarsi i negri portati schiavi in queste terre. Per cui la sua festa è tipicamente “afroamericana”, caratterizzata da danze e tamburi, anche se la sua devozione si è allargata a varie regioni, coinvolgendo tutti, senza distinzione di pelle e condizione sociale.
A Pueblo Llano non ci sono gli eccessi dello stato Zulia, per esempio, dove il santo viene asperso con alcool e ci si sbronza di brutto, anche durante la processione. Qui tutti sono sobri fino alla conclusione della festa, a sera inoltrata. Dopo...
Si inizia con la processione che parte dalla cappella di Motus, a circa 3 chilometri dalla parrocchia. La compagnia che cura la cappella trae fuori la reliquia (opportuno dono fatto dai frati di Sicilia lo scorso anno) e la statua del santo, tra balli e ritmi di tamburi, appunto. Quindi si da inizio alla processione, alla quale si aggregano lungo il percorso varie compagnie locali (ogni rione ne ha una) e alcune di fuori. Tutti si uniscono “danzando il santo”, nel senso che ballano loro ma muovono a ritmo di danza anche la propria statua di S. Benito, piccola o grande che sia. Molti partecipanti, fuori delle compagnie, giungono con il loro S. Benito per “ballarlo” (anche fray Nixon, il parroco, partecipa con una statuina che si trova in convento). È un vero tripudio di ritmo e gente. Il tutto per la durata di circa tre ore, fino a giungere alla parrocchia per la celebrazione eucaristica.
Quest’anno si è tenuta, per la prima volta, in chiesa, per evitare le distrazioni e i disturbi della piazza. Naturalmente la chiesa era strapiena, però tutti hanno apprezzato il clima di raccoglimento e preghiera che si è creato e mantenuto fino alla fine. L’omelia non poteva non ruotare intorno al danzare la propria vita davanti a Dio, sull’esempio di S. Benito.
Nel pomeriggio, dalle 14.30 alle 20.30, ogni compagnia, a turno, ha ballato per Dio con S. Benito nella piazza del paese, antistante il convento. Noi abbiamo assistito da un palco, da dove io, alla fine di ogni esibizione, benedicevo i membri del gruppo con la reliquia del santo, mentre altri consegnavano una medaglia e un diploma di partecipazione. Il tutto si è concluso con gli immancabili botti e fuochi artificiali.
É legata a una tradizione molto antica, e di tipo familiare, nel senso che appartiene a una famiglia particolare, ma coinvolge tutto il paese. Si collega alla “locura” (=pazzia) – da cui “locaina” – che, secondo la tradizione, afferrò coloro che a Betlemme non diedero ospitalità alla Sacra Famiglia, soprattutto quando si resero conto che non avevano avuto la disponibilità per far nascere il Figlio di Dio, in casa propria. I membri della Locaina “impazziscono” il 24 di dicembre, e per una settimana parlano in modo strano ed esprimono concetti al rovescio, però compiendo opere buone, come visitare e onorare i defunti. Il giorno 1 di gennaio celebrano una messa per ringraziare Dio del recupero della ragione nella fede rinnovata, e per pregare per i loro defunti.
Nell’omelia ho parlato loro del concetto di “pazzia” biblica: Dio “pazzo” di amore per l’umanità e che annuncia concetti al rovescio rispetto alla mentalità umana (il primo, ultimo; il più grande, servo...); i santi, “pazzi” di amore per Dio e per gli uomini, sull’esempio e con il sostegno di Gesú.
Dopo la messa si svolge come una processione e ai 4 angoli del paese vi è una cerimonia dei membri della locaina, vestiti con la loro bizzarra uniforme, che serve a “spazzare” l’influenza del male dagli abitanti di Pueblo Llano.
La festa di S. Benito (2 gennaio)
È una festa davvero popolare, non legata a nessuna famiglia e, per questo, fortemente partecipata. La figura di questo santo francescano negro di Sicilia è molto nota in America Latina, quanto sconosciuta in Italia (solo una bella canzone degli Inti Illimani, dedicata a questa festa, è un lontano ricordo di anni giovanili e di lotte studentesche in favore della democrazia in Cile). Probabilmente si usò il fatto che fosse negro e figlio di schiavi per presentare una figura di santo, nella evangelizzazione realizzata soprattutto dai francescani, con cui potessero identificarsi i negri portati schiavi in queste terre. Per cui la sua festa è tipicamente “afroamericana”, caratterizzata da danze e tamburi, anche se la sua devozione si è allargata a varie regioni, coinvolgendo tutti, senza distinzione di pelle e condizione sociale.
A Pueblo Llano non ci sono gli eccessi dello stato Zulia, per esempio, dove il santo viene asperso con alcool e ci si sbronza di brutto, anche durante la processione. Qui tutti sono sobri fino alla conclusione della festa, a sera inoltrata. Dopo...
Si inizia con la processione che parte dalla cappella di Motus, a circa 3 chilometri dalla parrocchia. La compagnia che cura la cappella trae fuori la reliquia (opportuno dono fatto dai frati di Sicilia lo scorso anno) e la statua del santo, tra balli e ritmi di tamburi, appunto. Quindi si da inizio alla processione, alla quale si aggregano lungo il percorso varie compagnie locali (ogni rione ne ha una) e alcune di fuori. Tutti si uniscono “danzando il santo”, nel senso che ballano loro ma muovono a ritmo di danza anche la propria statua di S. Benito, piccola o grande che sia. Molti partecipanti, fuori delle compagnie, giungono con il loro S. Benito per “ballarlo” (anche fray Nixon, il parroco, partecipa con una statuina che si trova in convento). È un vero tripudio di ritmo e gente. Il tutto per la durata di circa tre ore, fino a giungere alla parrocchia per la celebrazione eucaristica.
Quest’anno si è tenuta, per la prima volta, in chiesa, per evitare le distrazioni e i disturbi della piazza. Naturalmente la chiesa era strapiena, però tutti hanno apprezzato il clima di raccoglimento e preghiera che si è creato e mantenuto fino alla fine. L’omelia non poteva non ruotare intorno al danzare la propria vita davanti a Dio, sull’esempio di S. Benito.
Nel pomeriggio, dalle 14.30 alle 20.30, ogni compagnia, a turno, ha ballato per Dio con S. Benito nella piazza del paese, antistante il convento. Noi abbiamo assistito da un palco, da dove io, alla fine di ogni esibizione, benedicevo i membri del gruppo con la reliquia del santo, mentre altri consegnavano una medaglia e un diploma di partecipazione. Il tutto si è concluso con gli immancabili botti e fuochi artificiali.
Locaina e Cacao (3 gennaio)
Il gruppo della Locaina è ancora protagonista la mattina del giorno 3 gennaio, con la celebrazione – fuori tempo – della festa del santo martire Pancrazio. Essi partecipano alla messa e depongono ai piedi dell’altare le loro “insegne”, perché si benedicano alla fine. Nell’omelia ho parlato del senso della penitenza cristiana all’inizio di un nuovo anno, che si dovrebbe caratterizzare sempre per una ricerca più intensa di conversione, a esempio del martire che si sta celebrando.
Terminata la messa, si svolge fuori di fronte alla chiesa, il rito del “Cacao”. C’è da premettere che la Locaina il giorno 24 dicembre pianta, di fronte alla porta di ingresso della chiesa, un totem, rappresentante Napolión Linares. Non so dirvi se personaggio vero o di finzione. In tutti i modi, si tratta di uno che ebbe un buon tratto con i nativi indigeni, e per questo si celebra la sua memoria o ciò che rappresenta.
La cerimonia ha il seguente sviluppo. Prima si svolge la rappresentazione come il giorno 1, che essi chiamano “gioco”; solo che oggi è senza le uniformi. Essa celebra come un incontro pacifico tra le armi degli indigeni e quelle dei bianchi, presentate insieme al sacerdote perché le sollevi verso l’alto. Poi il “capitano” (=capo) sale sul totem e fa un discorso con riferimenti alla vita del paese e del gruppo, però in un linguaggio allegro e un po’ “cifrato”. Infine, si distribuisce il “cacao” ai piedi del totem: colpi alle natiche e alle gambe con un frustino, segno credo di purificazione e penitenza. Cominciano i sacerdoti, “frustrati” dal capitano (i colpi si avvertono, eccome; dipende dalla veemenza di chi li assesta); segue lo stesso capitano, “flagellato” dai sacerdoti; e, quindi, i presenti se lo vogliono. E vi assicuro che tutti si sottopongono a questo rito, coscienti o no di ciò che possa significare.