Il primo Natale senza mio padre… Ho chiesto a Lina, mia sorella, se esisteva ancora il presepe che ha caratterizzato tutta la vita dei miei e che per me rappresenta, da sempre, il Natale, con la sua sacralità e il suo mistero di amore. Le ho chiesto di mandarmene una foto; cosa che ha fatto in meno di mezz’ora, dopo averlo allestito. Si tratta infatti di un presepe “minimalista”, essenziale: una capannuccia di cartone con un po`di ovatta come neve, Maria Giuseppe e il Bambinello, il bue e l’asinello, un angelo a terra, due pastorelli zampognari con poche pecorelle.
Un presepe da montare in poco tempo, visto che i miei non ne avevano
molto da potervici dedicare, presi come erano dai loro rispettivi lavori, che
li teneva fuori casa per quasi tutto il giorno. Inoltre, mio padre era negato
per la manualità, esattamente come me; mentre mia madre, prima figlia in casa
di una famiglia numerosa, si era dovuta occupare ben presto delle faccende domestiche,
insieme alle sorelle più grandi, soprattutto quella di accudire i fratelli più
piccoli, tanto da essere considerata da loro come una seconda mamma. Entrambi
erano privi del talento della manualità, forse per carattere – mio padre – e
per scelta di vita – mia madre –, ma non erano privi di fantasia e poesia, pur
nel pudore delle espressioni.
La loro manualità si è espressa nei lavori di sartoria, mestiere di mio
nonno materno. Là mio padre, dopo essere stato costretto ad abbandonare le
scuole marittime a Manfredonia, perché occupate dalle truppe di liberazione, fu
mandato da mia nonna materna per imparare un mestiere; là ha conosciuto mia
madre bambina e l’ha “adottata”, fino ad innamorarsene perdutamente e per
sempre. Erano vicini di casa, e forse si sarebbero incontrati lo stesso, ma
certamente l’innamoramento fu favorito da queste circostanze. Poi mio padre fu
a sua volta “adottato” dai miei nonni materni e accolto dai miei zii, fino a
diventare per loro un fratello maggiore e un padre.
Non credo che mio padre sia stato mai entusiasta del mestiere di sarto,
pur essendo probabilmente bravo, tanto che mio nonno lo assunse nel suo
“atelier”, sia di Monte che di Foggia, dove ci si spostava quando il lavoro
scarseggiava in paese. A quell’epoca non si diventava ricchi facendo il sarto,
mestiere parecchio diffuso a Monte Sant’Angelo. Mio padre tentò anche la
fortuna a Milano, dove lavorò per cinque anni da sarto insieme ad altri
coetanei montanari, dal 1950 al 1955, ma i guadagni erano scarsi, tanto che
decise di tornare e dedicarsi ad altro: gestore di bar di uno zio materno,
prima a Foggia e poi a Monte; lavoro al cinema come maschera e addetto al
controllo dei biglietti; dipendente, infine, di mia madre nel negozio ereditato
dai nonni, attività sviluppata e ingrandita da lei. Perché riconosco che mia
madre aveva una mentalità imprenditrice e coraggio nelle scelte concrete;
mentre mio padre era più prudente e sognatore. Insomma, una coppia ben
assortita nelle loro diversità. Si sono davvero amati, pur non mancando a volte
divergenze di opinioni, con complice pudica passione, romantico mio padre,
aliena da smancerie mia madre.
Presepe nella Stalletta a Copertino |
Tornando però al Natale, se devo pensare a un “presepe del cuore” nella
mia vita, l’immagine che mi viene è proprio quella del presepe suddetto. Un
presepe da montare in pochissimo tempo e un alberello che ne richiedeva appena
di più. Tuttavia per me, nel mio immaginario, costituiscono la rappresentazione
più potente ed efficace della magia del Natale e della contemplazione del Dio
Bambino. Magari mi si dirà che è perché fanno parte della mia infanzia e
adolescenza, e credo che possa corrispondere a verità. Eppure ho visto presepi
di ogni tipo, alcuni stupendi, dovuto forse anche alla mia “professione”,
ultimo quello di quest’anno allestito nella stalletta dove è nato San Giuseppe
da Copertino, nel santuario che la custodisce e dove sono di famiglia. Nella
mia adolescenza e prima giovinezza ho aiutato per anni i miei amici più
fantasiosi e capaci di realizzazione pratica ad allestire il presepe nella mia
parrocchia di San Francesco d’Assisi. Il mio ruolo naturalmente era quello del
“manovale”, figura che non so se esiste tra i pupi del presepe… Presepi sempre
molto belli e artistici, con studio e aggiunta di qualche novità ogni anno;
momenti belli di amicizia e condivisione fino a sera tardi, che allora
corrispondeva a orari molto meno notturni di oggi. Normalmente lo terminavamo
dopo l’Immacolata; mancava però sempre l’ultimo dettaglio: il muschio, che il
più delle volte andavamo a raccogliere un paio di giorni prima della notte di
Natale (ricordo una volta il pomeriggio del 24…), spesso arrampicandoci sulla
parte rocciosa del castello dalla parte dello Scotto, con le mani gelate per il
freddo invernale.
Il “mio” presepe di famiglia, comunque, era e resta per me efficacemente suggestivo, pur nella sua essenzialità, o forse proprio per questo. Il mistero di amore del Natale, Dio che entra nel mondo e nella storia degli uomini da bambino, facendosi piccolo, “adattandosi” ai nostri limiti e assumendo le nostre fragilità. Un mistero rappresentato in un presepe, quello di casa mia, che si “adattava” agli spazi angusti della casa, incurante di essere posto sul frigo o su una mensola della ridottissima “sala da pranzo”, dove mangiavamo “ad incastro”, tra cucina, mensa e televisore. Mi piace questo Dio bambino non esigente, che entra in ogni casa adattandosi ad essa, cercatore di spazi interiori, dove prendere posto e portare pace. Ripenso con gratitudine al nostro angelo annunciatore di gioia e pace, non posto in alto, ma piantato a terra, ad altezza uomo, come il Salvatore di cui proclama la nascita. Mi piace immedesimarmi nei due pastorelli zampognari, poveri di pecore, ma ricchi di musica, poesia e gioia.