mercoledì 25 dicembre 2024

NATALE IN CASA ORNELLI

Il primo Natale senza mio padre… Ho chiesto a Lina, mia sorella, se esisteva ancora il presepe che ha caratterizzato tutta la vita dei miei e che per me rappresenta, da sempre, il Natale, con la sua sacralità e il suo mistero di amore. Le ho chiesto di mandarmene una foto; cosa che ha fatto in meno di mezz’ora, dopo averlo allestito. Si tratta infatti di un presepe “minimalista”, essenziale: una capannuccia di cartone con un po`di ovatta come neve, Maria Giuseppe e il Bambinello, il bue e l’asinello, un angelo a terra, due pastorelli zampognari con poche pecorelle.

Un presepe da montare in poco tempo, visto che i miei non ne avevano molto da potervici dedicare, presi come erano dai loro rispettivi lavori, che li teneva fuori casa per quasi tutto il giorno. Inoltre, mio padre era negato per la manualità, esattamente come me; mentre mia madre, prima figlia in casa di una famiglia numerosa, si era dovuta occupare ben presto delle faccende domestiche, insieme alle sorelle più grandi, soprattutto quella di accudire i fratelli più piccoli, tanto da essere considerata da loro come una seconda mamma. Entrambi erano privi del talento della manualità, forse per carattere – mio padre – e per scelta di vita – mia madre –, ma non erano privi di fantasia e poesia, pur nel pudore delle espressioni.

La loro manualità si è espressa nei lavori di sartoria, mestiere di mio nonno materno. Là mio padre, dopo essere stato costretto ad abbandonare le scuole marittime a Manfredonia, perché occupate dalle truppe di liberazione, fu mandato da mia nonna materna per imparare un mestiere; là ha conosciuto mia madre bambina e l’ha “adottata”, fino ad innamorarsene perdutamente e per sempre. Erano vicini di casa, e forse si sarebbero incontrati lo stesso, ma certamente l’innamoramento fu favorito da queste circostanze. Poi mio padre fu a sua volta “adottato” dai miei nonni materni e accolto dai miei zii, fino a diventare per loro un fratello maggiore e un padre.

Non credo che mio padre sia stato mai entusiasta del mestiere di sarto, pur essendo probabilmente bravo, tanto che mio nonno lo assunse nel suo “atelier”, sia di Monte che di Foggia, dove ci si spostava quando il lavoro scarseggiava in paese. A quell’epoca non si diventava ricchi facendo il sarto, mestiere parecchio diffuso a Monte Sant’Angelo. Mio padre tentò anche la fortuna a Milano, dove lavorò per cinque anni da sarto insieme ad altri coetanei montanari, dal 1950 al 1955, ma i guadagni erano scarsi, tanto che decise di tornare e dedicarsi ad altro: gestore di bar di uno zio materno, prima a Foggia e poi a Monte; lavoro al cinema come maschera e addetto al controllo dei biglietti; dipendente, infine, di mia madre nel negozio ereditato dai nonni, attività sviluppata e ingrandita da lei. Perché riconosco che mia madre aveva una mentalità imprenditrice e coraggio nelle scelte concrete; mentre mio padre era più prudente e sognatore. Insomma, una coppia ben assortita nelle loro diversità. Si sono davvero amati, pur non mancando a volte divergenze di opinioni, con complice pudica passione, romantico mio padre, aliena da smancerie mia madre.    

Presepe nella Stalletta a Copertino

Tornando però al Natale, se devo pensare a un “presepe del cuore” nella mia vita, l’immagine che mi viene è proprio quella del presepe suddetto. Un presepe da montare in pochissimo tempo e un alberello che ne richiedeva appena di più. Tuttavia per me, nel mio immaginario, costituiscono la rappresentazione più potente ed efficace della magia del Natale e della contemplazione del Dio Bambino. Magari mi si dirà che è perché fanno parte della mia infanzia e adolescenza, e credo che possa corrispondere a verità. Eppure ho visto presepi di ogni tipo, alcuni stupendi, dovuto forse anche alla mia “professione”, ultimo quello di quest’anno allestito nella stalletta dove è nato San Giuseppe da Copertino, nel santuario che la custodisce e dove sono di famiglia. Nella mia adolescenza e prima giovinezza ho aiutato per anni i miei amici più fantasiosi e capaci di realizzazione pratica ad allestire il presepe nella mia parrocchia di San Francesco d’Assisi. Il mio ruolo naturalmente era quello del “manovale”, figura che non so se esiste tra i pupi del presepe… Presepi sempre molto belli e artistici, con studio e aggiunta di qualche novità ogni anno; momenti belli di amicizia e condivisione fino a sera tardi, che allora corrispondeva a orari molto meno notturni di oggi. Normalmente lo terminavamo dopo l’Immacolata; mancava però sempre l’ultimo dettaglio: il muschio, che il più delle volte andavamo a raccogliere un paio di giorni prima della notte di Natale (ricordo una volta il pomeriggio del 24…), spesso arrampicandoci sulla parte rocciosa del castello dalla parte dello Scotto, con le mani gelate per il freddo invernale.

Il “mio” presepe di famiglia, comunque, era e resta per me efficacemente suggestivo, pur nella sua essenzialità, o forse proprio per questo. Il mistero di amore del Natale, Dio che entra nel mondo e nella storia degli uomini da bambino, facendosi piccolo, “adattandosi” ai nostri limiti e assumendo le nostre fragilità. Un mistero rappresentato in un presepe, quello di casa mia, che si “adattava” agli spazi angusti della casa, incurante di essere posto sul frigo o su una mensola della ridottissima “sala da pranzo”, dove mangiavamo “ad incastro”, tra cucina, mensa e televisore. Mi piace questo Dio bambino non esigente, che entra in ogni casa adattandosi ad essa, cercatore di spazi interiori, dove prendere posto e portare pace. Ripenso con gratitudine al nostro angelo annunciatore di gioia e pace, non posto in alto, ma piantato a terra, ad altezza uomo, come il Salvatore di cui proclama la nascita. Mi piace immedesimarmi nei due pastorelli zampognari, poveri di pecore, ma ricchi di musica, poesia e gioia.

sabato 2 novembre 2024

Era mio padre. 26 settembre – 2 novembre 2024

Il 2 novembre di quest’anno ha per me un sapore tutto particolare, agrodolce. Il 26 settembre è morto mio padre, per cui oggi, commemorazione di tutti i defunti, il mio pensiero corre particolarmente a lui, e lo commemoro in modo speciale insieme alla mia famiglia. Sapore agrodolce, come quello provato il giorno del suo funerale e i giorni seguenti, e ogni volta che il pensiero ritorna a lui. Agro, per il dispiacere e dissapore di non averlo più tra noi fisicamente, evento al quale non si arriva mai davvero preparati, tanto che anche la memoria diventa pastosa, intrisa di lacrime che si obbligano a non uscire, e pudiche nostalgie inespresse e inesprimibili. Dolce, per il dono lungo di anni insieme a noi, per una sofferenza fisica abbastanza breve e non particolarmente acuta negli ultimi tempi della sua esistenza terrena, ma soprattutto per l’esempio di vita che ci ha donato e lasciato in eredità.

Non temo di essere smentito se dico che mio padre ha vissuto una bella vita, non scevra da difficoltà e sofferenze varie, ma fondamentalmente bella. È stato un uomo buono, e da giovane anche parecchio bello. Di animo nobile, gentile nei modi, intelligente, amante della lettura (da pensionato ha divorato caterve di libri) e dei films (soprattutto western), gran camminatore, appassionato di ciclismo, poco incline a occupare primi posti, incapace di mettersi in mostra, con punte di timidezza senza essere introverso, sincero e disinteressato nelle relazioni umane, romantico e sensibile nel cuore e nelle espressioni (specie da anziano, quando alcuni filtri gli erano caduti e non provava vergogna nel fare complimenti ed esprimere gratitudine), dotato di un fine senso dell’umorismo, incline al buonumore e al sorriso (la risata sguaiata non gli apparteneva, e credo che noi figli abbiamo preso da lui e mia madre in questo), riconoscente verso le persone amiche, empatico nei rapporti umani, generoso nelle necessità altrui, grato verso la vita. Sapeva voler bene, ed era facile e spontaneo volergliene. Naturalmente, papà aveva anche i suoi limiti e debolezze, come tutti, ma senza nessuna cattiveria o furbizia. Non era santo già fatto, da nicchia; tuttavia, aveva quelle caratteristiche di santità quotidiana, della porta accanto, di cui parla il Papa e che si esprimono attraverso una umanità ricca, calorosa e accogliente.

Caratteristiche testimoniate da tante persone che hanno scritto e parlato di lui, arricchendo la mia conoscenza. Ho appreso circostanze ed episodi, di lui e di mia madre, che mi hanno commosso. Al suo funerale erano in tanti, molti si sono fatti vivi e presenti, e penso di poter affermare con sicurezza che non lo hanno fatto per amicizia verso noi figli, ma per riconoscenza e stima verso di lui. Negli ultimi anni di vita, vissuti in casa di riposo, era riuscito a farsi accettare e voler bene da tutti per la sua gentilezza e amabilità; tutto il personale era sinceramente dispiaciuto per la sua morte e commosso al momento di darci le condoglianze.

Papà era poi grandemente, follemente ed eternamente innamorato di mia madre, la cui bellezza è riuscito a contemplare fino agli ultimi giorni di vita. Senza ombra di piaggeria e nella più assoluta convinzione ci ripeteva spesso e fino alla fine: “Guardate come è bella vostra madre”. Ai suoi occhi la bellezza di mia madre non è stata mai intaccata dal trascorrere del tempo. È stato il grande amore della sua vita. Le arrabbiature più vere e forti le aveva se qualcuno si permetteva di offendere sua moglie. Non erano reazioni violente, perché la violenza fisica o verbale non gli apparteneva (da lui non ho mai ricevuto uno schiaffo, pur avendone meritato a volte); ma metteva in chiaro il suo pensiero, disposto a difendere mia madre ad ogni costo. Nessuno la conosceva, stimava e amava quanto lui. C’erano a volte incomprensioni tra loro, come in ogni relazione umana, ma i loro litigi finivano subito e ritornava spontanea la complicità di una vita (si conoscevano da 82 anni, sposati da 67).

Da qualche mese la salute di mio padre era andata deteriorandosi. Non era più riuscito a rimettersi in piedi ed era spesso stanco, desideroso di rimanere a letto. Ultimamente le sue quasi uniche parole erano: “Dio mio, per favore”. Tuttavia, ogni volta che gli si chiedeva come stesse, rispondeva sempre: “Bene!!”. L’invocazione a Dio penso gli scaturisse dalla sua fede semplice, non bigotta. Da pensionati, sia lui che mamma, si sono potuti dedicare maggiormente a una pratica religiosa: messa quotidiana, rosario, lodi e vespri. Poi lui, mattiniero, recitava le sue preghiere del mattino, ad alta voce, in cucina, al piano di sotto. Non ha voluto mai appartenere a un gruppo; però aiutava mia madre in tutto ciò che si riferiva all’OFS, da preparato simpatizzante. Tutti i vicini poi ricordano la sua opera samaritana per portare in chiesa alcune anziane bisognose di accompagnamento, dopo aver lasciato mia madre, e a volte in condizioni di disagio per pioggia o neve.

Pertanto, abituato a un padre brillante e affabulatore, ho avuto difficoltà a riconciliarmi con le fragilità del suo stato presente. Aveva ormai smesso di leggere, forse perché faceva fatica a ricordare la trama di un racconto o di un articolo. Benché, avendolo spinto a farlo pochi giorni prima di morire, sono rimasto sorpreso dalla sua capacità di leggere correttamente e fluidamente, pur avendo difficoltà a coglierne senso e significato.

Avvisato il 25 settembre da mio fratello e mia sorella sulle sue condizioni peggiorate, il 26 mattina sono partito da Copertino alla volta di Monte. Il pomeriggio siamo stati tutti e tre nella stanza, accanto a lui ormai agonizzante, alternandoci nella compagnia a mamma, ignara della gravità della situazione. Dopo cena eravamo tutti attorno al suo letto. Io ero sulla sua sinistra; Lina gli teneva la destra. Ogni tanto alzava il braccio sinistro e io gli prendevo la mano, pensando che cercasse un contatto fisico in un momento tanto forte; ma appena gliela prendevo lui abbassava il braccio, per poi tornare ad alzarlo. Questo si è ripetuto finché siamo dovuti venir via, intorno alle 21.00; Lina insisteva per rimanere, ma non era consentito. A mezzanotte ci hanno chiamati per dire che era spirato. Secondo i nostri calcoli dovrebbe essere morto tra le 22.30 e le 23.00.

Il giorno dopo è stato un viavai di persone commosse, grate per la sua esistenza terrena. La loro presenza e le tantissime testimonianze di affetto e stima sono state un balsamo per il nostro dolore. Lina si rimproverava del fatto che papà fosse morto solo, senza la nostra presenza. Carmen, da buona venezuelana, mi ha fatto leggere il gesto di alzare il braccio da parte di papà in un modo molto latinoamericano, frutto di una fede semplice, che mi ha dato certa consolazione. Secondo lei, e ne condivido l’interpretazione, in quei momenti la stanza di mio padre si è riempita di spiriti di persone defunte a lui care, per cui non è morto solo, ma in grande compagnia, accompagnato e consolato da quelle anime buone. E poi certamente era presente Gesù con sua madre.

E allora mi piace pensare che ci fossero i suoi cari genitori: mia nonna Maria, donna volitiva e determinata, dolce e generosa; mio nonno Matteo, persona mite e di umore fine, come mio padre; i nonni materni Pasquale e Caterina, che lo hanno accolto in famiglia da adolescente, in qualità di apprendista sarto, quasi come un altro figlio; la sorella unica di papà, zia Libera Maria, morta giovanissima di setticemia, della quale egli non parlava, credo per non riaprire una ferita mai chiusa, lasciando orfano mio cugino Franco, “adottato” dai nonni e considerato come figlio da mio padre, con un affetto ricambiato; i due cognati Michele: quello di Roma, per lui un fratello amato e atteso durante i giorni delle vacanze a Monte per la leggerezza che gli trasmetteva con le sue iniziative e il suo umore, e zio Michelino, considerato un fratello minore, la cui morte ha fatto soffrire tanto lui e mamma; zia Enza, di due anni più piccola di mamma, e perciò da sempre nella sua geografia affettiva; e poi tanti amici e parenti con i quali si sono voluti molto bene. Insomma, quella stanza, la sera del 26 settembre, credo che fosse piena all’inverosimile di belle e buone presenze. Mio padre non è morto solo, decisamente.

Il giorno del funerale ho ringraziato tutti i presenti, e i tanti assenti, per il bene voluto a mio padre, certamente meritato. Papà ha da sempre desiderato essere seppellito nella tomba insieme a sua madre, e ha chiesto che la lapide fosse semplice, senza luce e portafiori, naturalmente per non arrecare il benché minimo fastidio a noi figli, come sempre si è premurato di fare. Queste indicazioni le abbiamo rispettate. Non siamo riusciti ad adempiere le altre due richieste: quella di non piangere, e quella di andare, dopo il funerale, a bere un caffè al bar; ma penso che ci avrà perdonati.

Lapide provvisoria

Oggi mi sarebbe piaciuto andare a fare una visita alla tomba di mio padre, ma non mi è stato possibile. Lina però c’era, a rappresentare me e Pasquale. Mi sono ricordato della frase che mio padre ripeteva spesso: “Venitemi a trovare ora che sono vivo, perché da morto non serve”. Noi figli abbiamo condiviso con i nostri genitori il tempo che gli impegni ci hanno permesso; Lina più di tutti per i mesi che trascorrevano da lei dopo la pensione, e finché hanno potuto viaggiare. È vero però che serve relativamente andare a trovarlo al cimitero – anche se non smetteremo mai di farlo ogni volta che ne avremo la possibilità – perché ora è lui che viene a trovare noi, anzi ci accompagna dovunque siamo. Tanto è vero che poco fa Lina, in visita a Monte, essendo andata alla casa di riposo a trovare mamma, non riusciamo ancora a capire quanto consapevole del fatto di papà, mi ha raccontato che avendola portata nella stanza delle visite, come si è soliti fare, lei le ha chiesto dove fosse mio padre e perché non portasse anche lui, visto che le era stato accanto tutto il pomeriggio. La cosa non ha spiegazioni logiche o razionali. Abbiamo concluso che in questo giorno particolare lui abbia voluto farle compagnia. D’altronde si sono così tanto amati, che neanche la morte riuscirà a separarli; sarà impossibile staccarli, finché non si ricongiungeranno ancora, per l’eternità.

domenica 3 marzo 2024

65 anni

Questa volta il mio compleanno è caduto di domenica, per cui sono stato impegnato maggiormente da un punto di vista pastorale. In verità avrei avuto la mattinata libera, ma don Fabrizio mi ha chiesto di aiutarlo con la celebrazione della Messa delle 10.30 a Torre Lapillo. Vado comunque sempre volentieri a celebrare là, sia per la buona partecipazione della gente, sia per la vicinanza al mare. Dopo la Messa, il mio amico Vittorio Damanzo mi ha invitato al bar di fronte per un caffè, insieme a sua moglie e una coppia di loro amici, ignari del mio compleanno. Abbiamo trascorso quasi un'ora in piacevole conversazione, cercando di far affiorare nel mare dei ricordi episodi e persone legati al nostro anno di seminario a Monte, nel lontano 1973-74. Naturalmente a mezzogiorno i miei frati mi hanno festeggiato con il taglio della torta; cerimonia ripetuta con i laici nella Sala Francescana, dopo la celebrazione vespertina. Il resto del tempo l'ho passato, come ogni anno, a rispondere alle telefonate e ai messaggi di auguri arrivati via whatsapp, cosa che non sono ancora riuscito a fare con quelli arrivati su facebook.

A proposito delle torte, entrambe avevano una mia foto sopra, in materiale commestibile. È stato singolare vedere come venivo fatto "a pezzi" durante il taglio della torta e la sua distribuzione ai presenti. Ognuno riceveva un frammento della mia foto e lo mangiava. Ho pensato che in fondo la mia persona e la mia storia sono un insieme di frammenti, di momenti, di attimi, che formano però una unità, la mia. I sapori variano, pur se di poco, in base agli ingredienti in ogni pezzo e alla loro quantità, ma soprattutto in base al gusto di ogni singola persona. Mi fa piacere pensare che tante persone, durante questi miei 65 anni, hanno ricevuto un pezzo della mia vita. Spero sia loro servito, e che la condivisione sia stata per loro fruttuosa, dolce e leggera. Da parte mia chiedo perdono se a volte, pur non volendolo, sono stato indigesto per qualcuno, o procurato amarezza; spero che il buon Dio abbia rimediato ai miei errori. Io oggi mi sento arricchito, nella mia storia e nella mia persona, da tutto e da tutti.

 56, anni speculari di 65 – È l’ultima possibilità che ho, nella decade dei 60 anni, di continuare con questo gioco dell’anno allo specchio. Dai 66 in poi non potrò più per ovvie ragioni matematiche. Dovrò attendere i 70, e sperare di avere ancora voglia di giocare questo gioco, ma soprattutto di avere memoria per farlo.

56 anni: 2015. Sono andato sul mio blog per rileggere come avevo vissuto il mio compleanno numero 56, già in Venezuela, e stranamente non ho trovato niente. Vi è la descrizione dei giorni immediatamente precedenti, trascorsi tra Quito e Bogotà, ma dell’11 febbraio non esiste traccia scritta, e nemmeno ho memoria di come l’ho vissuto o di cosa abbia fatto. Non so spiegare perché non ho scritto niente, il motivo di questo vuoto testimoniale inerente a una consuetudine direi consolidata, portata avanti negli anni precedenti al 2015 e nei seguenti.

In ogni caso, il 2015 è stato l’ultimo anno del mio quadriennio da custode in Venezuela. Un'esperienza a volte difficile, con imprevisti fraterni (la morte di fray Edisson, l’uscita dall’Ordine di fray Johan, l’abbandono del ministero da parte di fray Jesús, ecc.) e istituzionali (cambio in corso di comunità, mia itineranza fuori da Guanare per tappare i buchi creatisi nelle fraternità di Barinas e Palmira), e purtuttavia arricchente in quanto ad esperienza e relazioni umane con frati e laici. Ho accettato l’incarico per rispetto alla volontà dei miei fratelli venezuelani che mi avevano votato, ma con riserve interiori circa le mie capacità organizzative, la gestione dei rapporti con le istituzioni e la burocrazia, le questioni socio amministrative: cose per le quali non mi sento molto portato.  Nel mio servizio di custode mi sono quindi proposto e preoccupato di puntare al valore delle relazioni, a presentarmi e pormi come padre e fratello, sulla scia di quello che San Francesco chiede particolarmente a un ministro della fraternità, e come tale credo di essere stato percepito e accolto.

Più in generale, sento di poter affermare che la fraternità sperimentata in terra venezuelana è ciò che maggiormente ha marcato la mia presenza in quella regione benedetta, tra quella gente generosa e ospitale. Da subito mi sono sentito parte di quella terra e di quella cultura; dai venezuelani, frati e laici, sono stato accolto e trattato come un fratello. Inviato in Venezuela per dare, ho piuttosto ricevuto, e in abbondanza. 

 Festival di Sanremo – Come da tradizione, una parola sul festival, che ha vissuto il suo ultimo atto la sera di sabato 10. La canzone vincitrice, quindi, è stata proclamata proprio nelle prime ore di domenica 11 febbraio. Io naturalmente ho appreso della vittoria di Angelina Mango solo dopo essermi svegliato. Già sapete che non seguo il festival perché non mi attira; quest'anno poi ho guardato solo qualche breve spezzone, ancora meno degli altri anni.

La canzone vincitrice è stata “La noia”, di Angelina Mango (non ci si è distaccati molto dal cognome del vincitore dello scorso anno: Mengoni). Ho apprezzato che si trattasse di una "cumbia" (è per il mio animo mezzo latinoamericano), ma il testo non mi ha preso molto. Ho ascoltato solo poche canzoni e non posso dire che mi abbiano entusiasmato, né in quanto a parole, né in quanto a musica. Quelle che maggiormente passano per le radio mi sembra che puntino più sulla orecchiabilità che su altro, a mo’ di tormentone. Ma forse, anzi di sicuro, sono io che non capisco, con i miei gusti retrò da sessantacinquenne.