Cochabamba – La città è posta a 2.500 mt d’altezza, circondata da montagne. Il cielo appare tesissimo per gran parte dell’anno, proiettando una luce particolare sulle cose e la natura. Il clima è molto secco e l’escursione termica notevole. Si passa dai 4-5 gradi della notte e mattino presto, ai 28-30 quando splende il sole. La pelle ne risente: le labbra si bruciano, le dita si spaccano e il naso spesso, al risveglio, sanguina. Questo almeno l’ho sperimentato io.
Il popolo boliviano vive molto ancorato alle sue radici e tradizioni, anche perché costituito, per molta parte da etnie indigene. I due gruppi principali sono i quechua e aymara, ciascuno con il suo idioma. Tarata, dove abbiamo tenuto il congresso, parla e vive quechua. Due cose mi hanno colpito.
Venerdì 16 luglio, davanti alla chiesa dei frati c’era una “veglia” in onore della Vergine del Carmelo, con gruppo mariachi e alcune persone del popolo ad ascoltare. Durante l’atto si sono distribuiti panini a tutti i presenti; poi, in alcuni secchi di plastica, con delle “coppe” comuni per attingere e bere, si è condivisa la “chicha” (una bevanda di mais fermentato). Prima e dopo aver bevuto, ho visto che tutti spargevano un po’ del liquido al suolo, e non capivo se era per igiene o che. I frati mi hanno spiegato che si tratta di un rituale antico per ringraziare la “pacha mama”, la madre terra, che genera vita e ci nutre.
Il 25, a Cochabamba, ho assistito a una danza, il “tinku”. In occasione delle feste religiose vari gruppi etnico-folkloristici ballano in processione e davanti alla chiesa in onore del santo. Il tinku è una danza tribale per propiziare la fertilità della terra. Mi hanno spiegato che originariamente comprendeva il sacrificio di alcuni animali, il cui sangue serviva per fecondare il terreno. Gli spagnoli, al loro arrivo, per puro divertimento, obbligarono gli autoctoni a lottare tra loro, bagnando col loro stesso sangue la terra. La lotta doveva terminare con un morto, sacrificato alla madre terra. Le donne incitano gli uomini alla lotta. Oggi tutto rivive in una rappresentazione, all’interno di questa danza lunga e spettacolare, cruda e anarchica. I colori dei vestiti, tipicamente andini, sono vivaci e molto belli.
Dopo il congresso, insieme al mio guardiano fray José Luis, e Alvaro, frate uruguaiano, siamo andati per due giorni di turismo a Sucre e Potosì.
Ho visto che la Bolivia vive, quasi in carta carbone, lo stesso processo politico del Venezuela, però le città sono molto più sicure e si può passeggiare fino a sera tardi.
Potosì – La città della “plata” (argento). Dominata dal “Cerro rico”, perforato da gallerie minerarie, fu la capitale economica di tutta l’America Latina durante il periodo aureo dell’estrazione del prezioso metallo. Affascinante, magica nelle sue strette vie coloniali; assurdamente uguale e sciatta nel quartiere dei minatori. Si trova a 4.000 metri di altitudine e ci si arriva attraverso una suggestiva via tra le montagne e l’altipiano boliviano. Il luogo non è favorevole a nessun insediamento umano; solo l’argento, un tempo abbondantissimo, giustifica la sua fondazione da parte degli spagnoli.
Degni di visita il Convento delle Carmelitane e la “Casa de la moneda”, simboli dell’auge spirituale ed economico. Nel suo momento di maggiore splendore, Potosì arrivò a contare 160.000 abitanti, quando Madrid e Parigi ne contavano circa 60.000. Si organizzano visite alle miniere, ancora attive. Mi sono scontrato con uno dei mestieri più duri, pericolosi e assurdi. L’estrazione dei metalli potrebbe avere un suo senso; ma giustificare la morte di migliaia di indigeni nella storia, e di uomini e animali in generale solo perché l’uomo ha deciso che alcuni metalli sono “nobili” mi pare diabolico. Per lavorare duro a certe altitudini, ma anche per vincere semplicemente gli effetti dei 4.000 mt, si usa masticare foglie di coca. È tipico vedere i minatori con una guancia rigonfia per la poltiglia di foglie di coca che mantengono in bocca, succhiandola e masticandola. Il tutto accompagnato da sorsi di acquavite.
Siamo stati ospiti dei frati minori, nel bellissimo convento di S. Francesco, monumentale. Solo due frati, tra cui un italiano di 75 anni circa. Il freddo intenso, prima che salga il sole, e l’altura, pare scoraggino altri a volerci andare.
Ritorno dalla Bolivia contento per l’esperienza turistica e culturale. Per 11 giorni ho lavorato sodo nella preparazione e svolgimento del Congresso, essendo moderatore unico e membro della Commissione di sintesi quotidiana e finale. Bello e arricchente ascoltare gli interventi e scambiare opinioni, a livello formale e nei momenti fuori dell’aula. Il clima fraterno è stato splendido. Tre giorni li ho potuti vivere da turista, visitando luoghi suggestivi e venendo a contatto con la cultura boliviana, molto più autoctona e legata alle tradizioni che non la venezuelana.